Racconti dall'ospizio #199: La PlayStation, ultima frontiera prima del duopolio calcistico FIFA/PES
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
La PlayStation non è stata solo la console che ha fatto diventare il videogioco pop, ma anche quella con cui è finita un’epoca, quella delle interpretazioni differenti del calcio su schermo. Sia chiaro, la nostalgia è uno fra i mali della contemporaneità e non c’è motivo alcuno per rimpiangere davvero molti dei titoli usciti tra il 1995 e il 2000, però è anche interessante notare come in quegli anni la storia dei titoli sportivi, e in particolare calcistici, sia drasticamente cambiata. Se nelle precedenti ere digitali lo sport aveva vissuto l’età della rappresentazione essenziale agli albori (International Soccer nel 1983 su tutti), per poi inseguire una suggestione che veniva glorificata dalla velocità, dal gesto e dall’intensità (Kick Off e Sensible Soccer sono due chiari esempi), negli ultimi scampoli della generazione a 16 bit, rappresentazione e suggestione trovano una sintesi nel modello televisivo (sebbene pionieristicamente inseguito a inizio degli anni Novanta già da Cinemaware su Amiga, con la sua serie TV Sports). Un modo di intendere lo sport che risponde non tanto all’esigenza di simulare la pratica atletica, quanto a quella di far vivere le emozioni dello spettacolo mediatico e della sua percezione da spettatori. In questa ricerca della mimesi, inizia a diventare fondamentale la necessità di riprodurre il discorso sportivo attorno alla disciplina simulata, e dunque contorno, aspetti tecnici ed endorsement degli atleti iniziano a fondersi su un piano unico, richiedendo alle software house uno sforzo sempre più improbo per portare sul mercato qualcosa di valido. Si potrebbe continuare la discussione avendo come oggetto anche tutti gli altri sportivi, ma stringere il cerchio sul calcio ci dà l’idea di quanto gli aspetti economici intorno ai videogiochi siano diventati fondamentali proprio a cavallo tra i due millenni. È proprio negli anni della prima PlayStation che si afferma questo modello, che porterà a un duopolio che dura ancora oggi (ma che si sta sempre più trasformando in un monopolio appannaggio di FIFA), proprio all’alba delle due nuove tendenze nello storytelling sportivo digitale: l’aspetto prettamente narrativo e ruolistico, e quello, ancora più attuale, dell’esport.
Torniamo al passato, e alla nostra scatoletta grigia, diventata dunque terreno di frontiera del calcio digitale. Leviamoci subito il dente e, prima di affidarci all’esplorazione dei meandri oscuri dei titoli forse dimenticati, ripercorriamo le origini della grande sfida. Su PlayStation, FIFA parte praticamente subito come serie annuale, e sono ben dieci i titoli della serie principale sfornati da Electronic Arts (considerando anche i quattro usciti anche su PlayStation 2), a cui ci sono da aggiungere World Cup ’98, in occasione della kermesse francese, ed Euro 2000, invece, dedicato agli europei disputati in Belgio e Olanda. Konami, dal canto suo, timbra il cartellino quattro volte (almeno per le edizioni globali, mentre sono almeno sette o otto i titoli dedicati al solo mercato nipponico) solo su PlayStaiton con il suo ISS Pro / Winning Eleven / Goal Storm, prima della sovrapposizione con PlayStation 2 e Pro Evolution Soccer; a questi c’è da aggiungere ISS Pro Deluxe, in pratica una conversione migliorata del titolo per SNES / Mega Drive, ultima splendida visione di calcio bidimensionale su PlayStation, e penultima del mondo console, se consideriamo Neo Geo Cup per Arcade/Neo Geo. Se fino al 1997, FIFA, grazie alla magnifica prima grande opera di racconto del calcio mondiale con il suo Road to the World Cup e la gloriosa Song 2 nel filmato di apertura, doppiata da Tubthumping per l’edizione mondiale, sono l’emblema del calcio virtuale, Konami metterà la freccia negli anni successivi, mostrando un mondo privo di licenze ma ricco dal punto di vista del gameplay e della tecnica. A ridosso del nuovo millennio, per giocare a un’approssimazione simulativa del glorioso giuoco del pallone, non c’è da chiedersi cosa e perché, ma soltanto amare con fervore Butatista e Coliuto in prima battuta, per poi abbracciare la magia della Master League, prendere la mano con il passaggio in profondità, e avere Owen e Roberto Carlos nel tridente offensivo. È l’inizio di una sfida che sarebbe stata messa davvero in discussione soltanto molti anni dopo.
Come già dichiarato in avvio, però, la PlayStation è l’ultima console su cui il calcio può prescindere da Electronic Arts e Konami. Il motivo risiede in una platea enorme, ancora poco fidelizzata e assolutamente affamata di contenuti. Questi sono spesso figli di operazioni commerciali in pieno stile 16 bit, e di quello che è uno scenario abbastanza fluido per ciò che concerne i diritti e le licenze, di sicuro caratterizzato da una visione ancora molto ingenua degli aspetti legati al business e al marketing, sia dal lato sportivo, che videoludico. Per di più, non c’è ancora una chiara divisione, nella testa delle persone, tra arcade e simulativo, e dunque arrivano sulla console Sony tantissimi giochi dai connotati particolari, sfumati, se vogliamo anche unici e originali. Sul terzo gradino del podio, in quegli anni, c’è probabilmente Actua Soccer, a tutti gli effetti risposta britannica di Gremlin Interactive alla serie Virtua Striker di SEGA e capace di unire la velocità degli arcade a un’interpretazione non banale del calcio, seppur più immediata, utilizzando solo tre tasti sul pad. Forte di un eurocentrismo anche nelle licenze, la serie raggiunge l’apice con Actua Soccer 3, grazie anche alla presenza di 450 squadre, il numero più alto dai tempi di Sensible World of Soccer. Tuttavia, forse la saga è ricordata da tutti per via dell’Alan Shearer Theme in apertura, dedicato al testimonial del gioco, bomber di Newcastle United, Blackburn e, soprattutto, capitano della nazionale inglese.
Scendendo nel sottobosco dei giochi di calcio a caso, invece, uno fra i tentativi più intrepidi è sicuramente quello di Adidas in compagnia di un’altra storica software house inglese, Psygnosis, in quella che è una galleria della malinconia, con i britannici destinati a sentirsi detronizzati anche nel calcio digitale. Di Adidas Power Soccer ne escono ben due, e il primo, a dire la verità, non è neanche male, se gli perdoniamo l’ovvio insensato product placement che campeggia ovunque. A rendere interessante la proposta sono sicuramente le animazioni dei giocatori, tutte realizzate in motion capture, e soprattutto la netta scissione tra Arcade Mode e Simulation Mode. Ricordo davvero con piacere la prima modalità, per la sua capacità di trasportarti in un mondo ispirato ai giochi Krysalis di Amiga, ma sotto evidenti acidi e arricchito da una terza dimensione gradevole. Tra corse fulminee, calci volanti nelle gengive e super tiri brandizzati Predator, le partite diventano una vera e propria festa dell’assurdo, in una celebrazione atipica del calcio non lontana dalla follia cestistica di NBA Jam. La quantità di acidi in Psygnosis cresce a dismisura, in maniera inversamente proporzionale ai soldi a disposizione, e il capitolo del ’98 vede i giocatori correre impazziti come gli ossessi per il campo, per un gioco imbarazzante. Con buona pace di un tronfio Marcel Desailly sulla copertina.
Inevitabilmente, il maledetto mondiale francese del 1998 diventa un’occasione ghiottissima per le software house, e in quel periodo i titoli calcistici fioccano come ogni quattro anni. È l’ultima volta che l’amplificazione mediatica della Coppa del Mondo abbraccia più di un videogioco, visto che la conquista della licenza da parte di EA Sports finirà per zittire qualsiasi concorrenza nel futuro. Impossibile non citare, in questa cronaca del calcio virtuale di periferia, Alexi Lalas International Soccer, meglio conosciuto da noi come Bomba ’98. Con un improbabile Roberto Di Matteo in copertina (ma fra i testimonial c’è anche il folletto sardo, ma londinese di appartenenza, Gianfranco Zola), il gioco di Z-Axis (software house americana), pubblicato da Take-Two, prova a sfidare i colossi del genere con un approccio visionario, per certi versi anche anticipando alcuni trend che saranno protagonisti nel futuro. Prima di tutto, c’è la volontà di seguire il reale, dando attenzione particolare ai volti dei giocatori, definendo delle facce. Tutto giusto, peccato che, per mostrare nelle zoomate le texture di volti, le proporzioni anatomiche vadano a farsi benedire, consegnandoci degli atleti macrocefali. Il resto del corpo non è molto più aggraziato, con arti mostruosi e giunture spigolose che mal si sposano, invece, con animazioni tutto sommato più che decorose. I dettagli delle magliette, la voglia di entrare in campo con una visuale a seguire stretta, l’idea di abolire il commento in favore dei suoni del campo sono tutti aspetti che di base possono essere originali, ma vanno purtroppo in conflitto con controlli ostici e un cervellotico sistema di tiro con tanto di mirino. Il concetto alla base vorrebbe bilanciare la complessità di mettere a posto il corpo prima della conclusione, però il risultato è terribile, e la simulazione fisica non può essere ancora così raffinata. A nulla possono l’endorsement di tanti campioni e la colonna sonora degli Ocean Colour Scene e, forse, Bomba ’98 diventa l’emblema del perché gli altri giochi di calcio si siano estinti.
L’idea di sentire il campo e non le voci dei commentatori, in realtà, è qualcosa di abbastanza comune in quel periodo, vuoi pure per la necessità di concentrare le risorse economiche e tecnologiche in altri reparti, nel tentativo di conquistare una fetta di un mercato che inizia a polarizzarsi. La proposta più virtuosa e originale arriva dal semisconosciuto Crimson Studio con Viva Football (o Viva Soccer), pubblicato da Virgin Entertainment nel settembre del 1998. Pur non essendoci licenze ufficiali di competizioni nazionali, nel database sono contenute (quasi) tutte le nazionali di calcio dal 1958 all’uscita o, almeno, 1035 selezioni che hanno rincorso la Coppa del Mondo. Questo vuol dire poter sfidare l’Olanda del ‘74 con l’Argentina dell’86, e rispondere a domande esistenziali del tipo “È meglio Maradona o… ” vabbè, no, questa non è una domanda intelligente, facciamo “È più forte Cruijff o Di Stefano?”. La bellezza di Viva Football sta nel riproporre una storia del calcio fatta di moduli, statistiche e intuizioni diverse, che ovviamente non può avere la profondità descrittiva di un’enciclopedia tattica ma, perlomeno a spanne, riesce nel miracolo di offrire una varietà di approcci incredibile per vent’anni fa. Col senno di poi, è forse uno fra i titoli calcistici più ambiziosi di sempre, soprattutto nel tentativo di cambiare ritmo di gioco a seconda del decennio. Per dire, FIFA 19, durante Il Viaggio, propone una partita di calcio degli anni Sessanta, che però finisce per essere un reskin agé di un normale match nel presente, con tanto di presenza errata della regola del retropassaggio al portiere. In Viva Football ci sono tante finezze, come anche il tentativo di costruire un contorno all’altezza e dare voce ai giocatori nelle loro lingue di appartenenza. Purtroppo, l’attenzione al dettaglio non è maniacale in ogni aspetto, il gioco presenta diversi problemi di I.A. della linea difensiva e la sua rigorosità simulativa finisce per rendere un po’ tutto farraginoso. Ancora oggi resta il mio gioco di calcio preferito al di fuori del “binomio” di quel periodo, e credo che lo sguardo verso il passato meriti un’attenzione degna delle intenzioni di Crimson Studio, in parte più sensate di quelle che hanno partorito le pur intriganti Icon presenti in Ultimate Team.
Sul finale della generazione, arrivano due franchise destinati a resistere anche al passaggio generazionale, prima di collassare con non pochi rimpianti. Mi riferisco a This is Football di Sony (il primo capitolo arriva nel 1999 su PlayStation e la serie finisce poi tragicamente nel 2005 su PlayStation 2) e UEFA Champions League di Silicon Dreams. Il primo è in parte figlio della bellissima esperienza di Total NBA, sviluppato da 989 Studios e SCE London, e prova a recuperare quella dimensione di mezzo tra FIFA e ISS Pro che aveva reso famoso Actua Soccer. Grazie a una grafica elegante, a un buon numero di squadre (parzialmente con licenza) e a un sistema di controllo che prova a utilizzare i dorsali in maniera creativa, This is Football diventa la prima alternativa al duopolio e manca sempre di poco il centro completo, solo a causa di enormi problemi sulla gestione delle palle alte. Purtroppo, la crescita del franchise non è tale da impensierire davvero FIFA, evidente punto di riferimento per la spettacolarità del contorno, e la conquista da parte di EA di tutte le licenze del mondo finisce per uccidere il pur pregevole tentativo di Sony. Sorte ancora più crudele capita a UEFA Champions League, dopo gli interessanti tentativi tra il 1998 e il 2001, ereditando quanto di buono fatto dagli sviluppatori britannici con Word League Soccer. L’idea di ricreare una competizione nel dettaglio e ridurre le “dimensioni” del gioco sfruttando una licenza che inizia a diventare importantissima, permette allo studio di sviluppo di ricreare stadi e minuzie in grado di superare serenamente l’impatto scenografico di FIFA. In più, uno stile se vogliamo meno fluido e veloce, ma focalizzato sul pieno controllo del pallone (è l’unico gioco di calcio della storia che utilizza un tasto per lo stop, chiedendo uno sviluppo di manovra più ragionato) e una sensazione di tiro davvero fisica, rendono la serie un rivale agguerrito per i due campioni di vendite, posizionandola idealmente al secondo gradino di una scala simulativa. Il franchise riesce anche a sbarcare su PlayStation 2 ma, quando la licenza della Champions League passa a EA, la software house canadese tira fuori una sorta di rebrand di FIFA e buonanotte al secchio. L’idea di focalizzarsi su una sola competizione avrebbe avvicinato di molto lo sviluppo delle simulazioni calcistiche a quelle degli sport americani, una strada che avrebbe fatto avanzare in realtà molto più velocemente la cura degli aspetti più delicati della riproduzione delle dinamiche di gioco, potendo rinunciare alla globalità orizzontale di tutte le competizioni e puntando tutto su un’esperienza verticale. Ancora oggi mi chiedo perché una software house non provi a monopolizzare un campionato chiuso come la MLS per dedicargli un titolo e tentare il colpaccio, ma immagino che il quasi totale dominio di EA sulle licenze renda le barriere all’ingresso davvero alte. Silicon Dreams ed Eidos, per qualche anno, ci sono riuscite, ed è un peccato aver visto le loro speranze morire così.
Intorno a questi giochi, che dalla loro hanno provato, nel bene e nel male, a costruire un futuro alternativo pluralista che non abbiamo mai vissuto, ci sono tanti tentativi poco riusciti che sono affogati nell’anonimato. Da Ronaldo V-Football a David Beckham Soccer, passando per le tristissime escursioni sul campetto di strada di Puma Street Soccer dell’italiana Trecision. All’appello dei titoli che vale la pena di ricordare manca, forse, il più famoso scheletro nell’armadio di tutti gli appassionati di calcio, ovvero Libero Grande di Namco. Figlio illegittimo dei sogni più arditi di Simulmondo, reinterpretati dalla tipica follia nipponica, Libero Grande arriva a fine 1998 a proporre qualcosa di visto soltanto all’epoca dei floppy disk: la possibilità di giocare nei panni di un solo giocatore, con visuale a seguire e obiettivi ben precisi durante la partita. Il primo capitolo, uscito prima in sala giochi, è spiccatamente arcade nella progressione delle partite, nell’idea di scegliere un calciatore iconico (senza licenza, ma ispirato ad atleti reali, da Baggio a Ronaldo, passando per Klinsmann e Valderrama) e piazzarlo in una nazionale a prescindere dal suo passaporto. La presenza di caratteristiche precise, ruoli e un’idea di calcio specifica per ogni personaggio e la possibilità di sbloccarne altri (come Lalas, Weah, Miura) trasformano Libero Grande in una simulazione sportiva con l'anima di un picchiaduro. Il pubblico si divide tra chi lo ama e chi non sopporta la visione egocentrica delle partite, che sembrano quasi uscite da un anime ad personam. Personalmente, neanche a dirlo, credo di averlo finito in qualsiasi modo e maniera e di aver addirittura adorato lo sfortunato seguito (Libero Grande International in Europa), per la sua spersonalizzazione e la voglia di raccontare il calcio in campo in maniera quasi rigorosa, pur con idiosincrasie tipiche dell’approccio arcade. Il ritmo dell’azione, la fisicità dei colpi e la resa incredibilmente ariosa dello stadio rendono Libero Grande il vero antesignano della svolta storytelling vista nelle carriere degli sportivi attuali e, come tutti gli altri giochi descritti sommariamente in questo lungo viaggio, ha dato un contributo allo sviluppo del genere che sarebbe ingiusto dimenticare.
Gli attacchi a EA Sports e Konami saranno sempre meno efficaci nel corso della generazione successiva e il calcio digitale diventerà sempre più un discorso binario, fatto di tifoserie e rivalità tra giocatori fastidiose e annichilenti. L’eco di quei giorni di gloria per il pallone virtuale risuonerà in realtà fortissima in tanti piccoli aspetti saccheggiati dalle due produzioni principesse del mercato e portati a un livello qualitativo pazzesco. Ma sebbene i giochi usciti in quel periodo siano invecchiati malissimo, studiando approfonditamente le proposte di quegli anni, immaginare un modello alternativo di simulazione calcistica non è forse così utopistico, soprattutto pensando agli approcci più folli. Sociable Soccer, New Star Soccer, Kopanito e Rocket League mostrano che alternative di scopo minore possono scavarsi nicchie più o meno grandi, ma credo che il pubblico sarebbe pronto ad apprezzare qualcosa di diverso. Certo, il peso delle licenze ufficiali, visti i dati di vendita, farebbero pensare di no, ma come ho scritto in apertura, la nostalgia è il male più grande di questo secolo e le mode, si sa, sono cicliche.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a PlayStation Classic e alla prima PlayStation, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.