Outcazzari

Racconti dall'ospizio #175: L'estate di Final Fantasy VIII

Racconti dall'ospizio #175: L'estate di Final Fantasy VIII

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

L’altro giorno, al lavoro, ho avuto uno di quei “momenti Ratatouille”. C’è quella scena in cui Ego assaggia la pietanza e inizia a sfrecciargli l’infanzia davanti. Ecco, la stessa cosa è capitata a me, potentissima. Arriva un cliente, anche lui sulla trentina come me, e mentre mi chiede un preventivo, gli squilla il telefono. La suoneria? THE MAN WITH THE MACHINE GUN!

Perso Francesco. Schizzo indietro coi ricordi a poco meno di vent’anni fa. Dietro l’angolo, proprio. Quando coi cellulari ancora ci potevi ammazzare qualcuno lanciandoli dal cavalcavia e la connessione a internet era una massa amorfa di HTML tabellare. Bel periodo. Estate, scuola finita, si riprendeva ad assaporare il gusto dell’asfalto con le ginocchia. Tra una partita di calcio con regole da galera colombiana, faide pokémon e sessioni di nascondino che toccavano il grado stealth 8.7 della scala “Chi l’ha visto?”, si giocava a Final Fantasy VIII. L’otto. Non il sette super acclamato, indelebile, forever in the sky. L’otto. Versione Platinum pure, ché eravamo in ritardo su tutto.

Final Fantasy VIII è la storia di un ragazzo, tale Squall, che è una punta preso male. Cadetto di una scuola militare/college, finisce per infilarsi in una faccenda più grande di lui, a base di streghe, evocazioni che ti danno poteri eccezionali ma ti mangiano i ricordi, mostri pianti dalla luna (si, pianti), sogni d’altra gente vissuti a scrocco e mindfuck sull’alterazione spaziotemporale. Un polpettone dalla consistenza stopposa, che però mandavi giù perché, oh, c’aveva il graficone. Rispetto a Final Fantasy VII, Squall e compagni godevano infatti dei benefici dell’ultima fase di vita della PlayStation, che in quello stesso periodo sparò fuori cannonate tipo Metal Gear Solid. Mica pizza e fichi, raga.

Sta di fatto che tutti giocavamo a Final Fantasy VIII senza un apparente motivo. In realtà funzionava così, nel vicinato di primi anni 2000: il primo che portava qualcosa di nuovo nel quartiere veniva interrogato per tre giorni e tre notti dal resto della cricca e se la cosa era ritenuta interessante (ovvero nel 99,9% dei casi), si diffondeva in tempo zero, come l’eroina nei primi anni Ottanta. Non ricordo esattamente chi sia stato il paziente zero, di sicuro non io. Ricordo perfettamente, però, che Wikipedia esisteva già e si faceva giù in cortile dopo ogni serata, perché tutti ci stavano giocando e ognuno ci metteva del suo per svelare i segreti di quel mattone di gioco, suddiviso in una pratica raccolta da quattro dischi, così spessa da occupare sulla mensola lo spazio di due giochi, senza vergogna. Associati a Final Fantasy VIII, ci sono alcuni fra i momenti videoludici più alti del vicinato. Ricordo di averlo ricominciato da capo tipo dieci volte per recuperare i Guardian Force mancati e di aver rivolto sinceri insulti agli amici che mi resero nota l’esistenza di Siren arrivato a disco due inoltrato. Ricordo di aver barattato i colori per un po’ di autonomia, andando a giocare con un vecchio televisore difettoso tutte le volte che i miei occupavano quello buono. Ma soprattutto, ricordo la telefonata di Pier Vincenzo che mi dice “Vieni a casa di Ruggiero, sta battendo Artemisia”.

Show dell’anno.

Final Fantasy VIII fu il primo approccio del cortile a un gioco con una mole di cose da fare imbarazzante per la media dell’epoca. Tanto che tutti si erano dimenticati dell’esistenza di un finale. Tranne Ruggiero (che si chiama Marco ma tutti chiamano per cognome), che s’è buttato dentro al castello a testa bassa. Lui in avanscoperta e noi dietro a fare l’intelligence. Per farlo andare avanti, ci abbiamo buttato una settimana, dietro all’enigma della pinacoteca. Vividarium, Intervigilium, Viator. Dolmen infame. E insomma, tra un’investigazione e l’altra, Ruggiero fece il resto, fino ad arrivare allo scontro finale. Ricordo di non aver manco riagganciato la cornetta, di esser scappato letteralmente di casa (parola forte, scappare: Ruggiero abitava nel palazzo di fronte) e di essermi vestito in strada. Il tragitto portone-ingresso di casa Ruggiero era già predisposto per non rallentare la corsa. Ed eccoli là, tutti diligentemente seduti alle spalle di Ruggiero, in fila, sul letto della sorella, la cui stanza dalle eccessive tonalità rosa ospitava il Pentium 2 su cui miracolosamente girava il gioco. Disco 4 che andava a 80.000 giri al secondo e ventola prossima al suicidio. RAM non pervenuta.

Nessuno ci aveva spiegato che la boss fight era una guerra di logoramento e quindi, come imbecilli, si è cantata vittoria troppo presto per tutte e tre le prime fasi. Si sono inframezzati attimi di puro panico, tra boss che prima di tirare le cuoia cacciano fuori attacchi tremendi, boss che si fondono per tirar fuori altri boss ancora più grossi, boss che sembrano morire ma si trasformano in Super Saiyan. Poi Artemisia ha iniziato a blaterare e da lì abbiamo capito: c’eravamo quasi. L’arcinemesi inizia sempre a fare il monologo poco prima di crepare. Classico. Finalmente schiatta. Mortadella e champagne. Ruggiero celebrato come eroe della patria. La madre che sbuca dalla cucina e ci guarda come se volesse chiedere aiuto per farci internare tutti. Poi, qualcuno di noi se ne uscì con “Ma mica esiste la carta di Griever?” e tutti tornammo composti a considerare Final Fantasy VIII per il vero motivo di acquisto.

Triple Triad ci ha rovinato tutti. Di trecentosessantacinque ore di gioco, la metà le ho lasciate in quel maledetto minigioco di carte, che da una regione all’altra si trascinava regole vigliacche. A Balamb contavano i numeri, a Galbadia gli elementi, a Esthar erano già mani in faccia. Ma la figata era quella, perché tutto era in gioco fino alla fine, a ogni partita. E la sconfitta era amarissima, perché il vincitore si prendeva metà della tua mano. Quando però eri tu a vincere… ancora mi viene la pelle d’oca che manco la traversa di Trezeguet ai Mondiali. Libidine. Fatto sta che gioca di là, trasforma di qua (si, potevi trasformare i mostri in carte e iniziare una mattanza non dissimile dalla cattura dei pokémon), le collezioni di ognuno di noi sovrapposte avevano il medesimo buco a pagina 5. Carta mai avvistata prima. L’idea che fosse Griever divenne ossessione.

Scatta così la più grande ricerca di sempre. Telefono che squilla a tutte le ore. Sessioni di gioco extra, incuranti delle minacce dei genitori. Edicolanti torchiati pesantemente. Fino a quando eccola. La rivelazione.

Leggendo questa bibbia, venne fuori di tutto. Principalmente che eravamo una manica di stronzi. Perché la carta mancante era di un piccoletto alieno che invocava Elisir e gli Elisir, in Final Fantasy VIII, sono rari come gli avvistamenti di delfini in campagna e stranamente appaiono tra le ricompense solo nelle prime ore di gioco. C’è chi ha ricominciato Final Fantasy VIII da capo piangendo di rabbia, ma al tempo stesso estasiato dalle continue scoperte.

Esplorato l’esplorabile, scovato lo scovabile, non rimase che lei, quella grandissima vacca mutante di Omega Weapon. Indefiniti anta milioni di miliardi di punti vita e noi, bimbinutella, mica lo sapevamo che era cosa buona e giusta non far attaccare tutti e tre i membri del party. Il guaritore di turno che stava solo a rianimare non era per noi. E quindi via all’Isola più vicina all’inferno, a pomparsi come omini in palestra prima dell’estate. Quell’isola ci gasò come tori. Zeppa di mostri bellissimi, cattivissimi, fortissimi. Molboro che ti causava tutti gli status alterazione più tachicardia. RubDrumDragon a mazzi da tre ogni due passi. Era la stanza dello spirito e del tempo di Final Fantasy. Dieci minuti di schiaffi lì erano venti level up sicuri.

Usciti di lì con l’arroganza di chi può vivere per il resto dei suoi giorni di sola prepotenza, ci siamo presto scontrati con la verità dei fatti: davanti a Omega, eravamo delle seghe indegne.

Fu la vergogna a farci scoprire, però, qualcosa di ancora più indegno. Il sommo libro dei codici mostrò la via ai sonari. Se aprivi il coperchio durante la partita, il gioco freezava ma non andava in crash. Questo significava dare improvvisamente importanza alla più ignorata del party, l’irritante Selphie Tilmitt, che tra le sue tecniche speciali aveva The End, l’attacco più stronzo mai concepito da mente umana.

Impastata a schiaffi e Fortuna +1, la sua roulette divenne un deterrente bellico di prima scelta. A quel punto fummo liberi dal giogo di quei quattro dischi infernali, che fagocitarono la nostra esistenza per un’estate intera, incapaci di terminare Final Fantasy con la sola buona volontà. Ma quando mai? So’ ragazzi.

In tutto questo, la compressione temporale è bella che in atto, perché nella realtà sono passati due secondi, durante il mio flash nostalgico, ma il tizio davanti a me lo sa bene e so già che mi toccherà fargli uno sconto, se tira fuori la citazione giusta. Non la tirare fuori, che sto in bolletta, su.

“Ma i Gufi ci sono ancora?”

Porca miseria.

The Missing: J.J. Macfield and the Island of Memories, come uccidersi per vivere

The Missing: J.J. Macfield and the Island of Memories, come uccidersi per vivere

SINNER: Sacrifice for Redemption - Dio perdona, SINNER no

SINNER: Sacrifice for Redemption - Dio perdona, SINNER no