Suburra è un po' una questione di bicchieri
Esistono serie TV che partono subito a mille e tengono alto il livello dall'inizio alla fine. Sono piccoli miracoli che svettano là in cima, ai massimi livelli della produzione seriale. Ma sono casi rari. Più spesso ci sono alti e bassi, fra episodi pilota che sparano tutte le cartucce e rimangono senza nulla da dire poi, saliscendi vertiginosi e serie che crescono nel tempo, lentamente ma regolarmente. Queste ultime sono quelle che premiano la fiducia. La fiducia in questo o quell'elemento riuscito che hai colto nelle prime puntate e la voglia di vedere se gli aspetti positivi sapranno prendere il controllo della situazione. È il caso di Suburra, la cui prima puntata, diretta da Michele Placido come la seconda, va a un passo dal disastro ma si salva mostrando fin da subito quelli che saranno poi gli aspetti migliori e centrali della serie ispirata al film di Stefano Sollima, del quale la produzione Netflix è una sorta di prequel.
L'avvio di Suburra è infatti molto, troppo impacciato, vuoi per la recitazione impresentabile del cast "di nome", vuoi per certi inciampi di messa in scena, che rievocano spettri di una fiction televisiva lontana anni luce da quella a cui ci hanno abituati le produzioni Cattleya. Se le performance di gran parte degli attori teoricamente più affidabili e momenti agghiaccianti come quello scambio sul balcone con protagonista Claudia Gerini fanno quasi passare la voglia, però, attorno c'è tutto il resto, che convince per valori di produzione, cura dell'immagine e, soprattutto, interesse nei confronti del vero cuore di tutte le vicende. Nei passaggi in cui viene dato spazio alla politica, ai vecchi e meno vecchi che cercano, consolidano, perdono potere, Suburra resta ingessato e faticoso fino alla fine delle sue dieci puntate. Per fortuna, però, si rende conto in fretta che la sua forza non sta lì, marginalizza i punti deboli e dà sempre più spazio a ciò che funziona davvero: le vicende delle famiglie criminali Adami e Anacleti, le storie intrecciate dei tre giovani che muovono il sottobosco criminale cercando il proprio destino.
Da un lato, è un peccato che la serie finisca per spingere quasi solo in quella direzione, perché si perde parte del fascino alla base della sua concezione, incentrata sui rapporti fra stato, chiesa e crimine. A conti fatti, l'istituzione religiosa è presente in misura molto ridotta, poco approfondita, e la politica diventa via via meno importante, lasciando spazio a tutto il resto. D'altra parte va bene così, perché il resto è una storia di famiglie criminali raccontate da un cast questo sì davvero eccellente, fra ottime conferme (Alessandro Borghi, Adamo Dionisi) e strepitose novità (Barbara Chichiarelli, che arriva dal teatro). Queste famiglie vengono messe in scena quasi come clan da epica fantasy, tratteggiate come veri e propri popoli, con i loro castelli, le rispettive convenzioni, addirittura lingue, usi e costumi, trovando una capacità di descrivere luoghi, ambienti, filosofie di vita, che era poi forse anche il principale merito del Suburra cinematografico. E in questi mondi fantastici, nascosti fra le pieghe del reale romano, si sviluppano le vicende dei veri protagonisti, raccontate con una forza, un piglio e anche un gusto del divertimento puro che prendono sempre più il controllo di Suburra e trascinano per le sue dieci puntate. O, al limite, per le otto deplacidizzate.
Suburra è disponibile su Netflix dal 6 ottobre. Il Vai a sapere qua sopra sta a un capello dal Frechete, perché la verità è che, tolto l'avvio difficile, mi ci sono divertito parecchio. D'altra parte, capisco se l'avvio difficile vi fa passare la voglia. Insomma, vedete un po' voi come preferite il bicchiere.