Un breve viaggio nella capoccia di Fumito Ueda
La seconda giornata di Nordic Game Conference 2017 si è aperta con una chiacchierata davanti a un caminetto digitale. Fumito Ueda (Ico, Shadow of the Colossus, The Last Guardian) è stato intervistato in maniera molto informale da David Polfeldt di Massive Entertainment ed è andato a parlare della sua carriera, delle sue ispirazioni e di altro ancora, nel corso di una piacevole oretta punteggiata anche da domande giunte dalla community. La conversazione ha avuto inizio con uno sguardo agli esordi del designer nipponico, che ha iniziato a lavorare nei videogiochi a venticinque anni e commenta la cosa dicendo: “Ero giovane, ma neanche troppo, per gli standard giapponesi”. Laureatosi in indirizzo artistico (pittura astratta), Ueda non era in realtà particolarmente interessato a una visione accademica dell'arte e sognava di lavorare nell'entertainment. Si è allora comprato un'Amiga e ha iniziato a pasticciarci per i fatti suoi, nel privato, anche perché all'epoca trovare un computer all'università era un mezzo miracolo.
Allegato al suo nuovo computer c'era un programma per realizzare animazione digitale: non era ciò a cui mirava ma, sperimentando e provando a realizzare brevi filmati, si rese conto che forse poteva essere una strada da seguire. Si propose così al publisher presso cui venne assunto per il suo primo lavoro, come animatore. Dopo un anno e mezzo in catena di montaggio, però, era ormai deciso a realizzare un progetto personale. Mise un po' di soldi da parte, diede le dimissioni e iniziò a lavorare su un'idea specifica che aveva in mente: una ragazza molto alta, tenuta per mano da un ragazzino. Non sapeva nemmeno se sarebbe stato un film o un gioco ma aveva già in mente anche il titolo, ICO.
Peccato che i sogni son belli ma i soldi dopo un po' finiscono: gli serviva un lavoro. Volle il caso che in quel periodo Sony cercasse personale da dedicare alla computer graphic, quindi Ueda si propose, ma ad una condizione: voleva un impiego part-time, per avere il tempo di portare avanti il suo progetto. In Sony si incuriosirono, gli chiesero di cosa si trattasse e, dopo qualche conversazione, gli proposero di realizzarlo con loro. “Scelta intelligente, da parte di Sony,” commenta Polfeldt, “Sono d'accordo,” dice ridacchiando Ueda. Era il suo primo progetto vero e proprio, non sapeva se avrebbe avuto successo ma voleva creare qualcosa di originale e fuori dagli schemi. I risultati non saranno male, via, per un primo progetto.
La cosa buffa, spiega Ueda, è che nonostante i suoi giochi siano ambientati in mondi di fantasia, lui non ama il fantasy. Sono luoghi adatti a ciò che vuole fare coi suoi giochi ma piuttosto lontani dal suo gusto, e infatti Ueda pensa che molta gente abbia un'immagine sbagliata di lui e delle sue inclinazioni personali. Fra l'altro, probabilmente molti pensano che viaggi molto, per fare lavoro di ricerca e riprodurre i luoghi visitati nei paesaggi sognanti dei suoi giochi, ma non è così. Nasce invece tutto dalla sua fantasia e per alimentarla, visto oltretutto che non ama particolarmente quei mondi e fatica a visualizzarli, utilizza la musica. Lavora inforcando un paio di cuffie e ascoltando colonne sonore cinematografiche, che lo aiutano a immergersi nello stato mentale giusto e in quei mondi fantastici. E, a proposito di fonti d'ispirazione e colonne sonore, Fumito Ueda è un grande appassionato di cinema, che però non vuole indicare i suoi film preferiti. Quel che sottolinea, comunque, è il suo amore per il cinema popolare di qualità, i film che vengono apprezzati dalla critica ma riscuotono grande successo di pubblico. Un punto d'incontro che, del resto, rispecchia le sue decisioni da neolaureato e il suo desiderio di lavorare nell'entertainment.
Ma come nasce un progetto di Fumito Ueda? Tipicamente, il designer nipponico cerca di lavorare sviluppando tutto in parallelo, senza dare priorità a un aspetto in particolare, portando avanti mano nella mano gameplay, aspetto visivo, storia, colonna sonora… Però c'è sempre un punto di partenza. Ico è nato soprattutto dall'immagine della coppia di protagonisti e in un secondo tempo è arrivata l'idea di gioco del tenersi per mano. Con Shadow of the Colossus si è partito invece dalla meccanica, dall'idea di arrampicarsi su una creatura enorme, e poi si è immaginato il protagonista a cavallo. E The Last Guardian? Tutto è partito ancora una volta da un'immagine, dalla figura di Trico appollaiato in cima a una struttura altissima, su uno spazio molto ristretto, con un ragazzino appeso a lui. In tutto questo, quando inizia i lavori su un progetto, Ueda cerca di avere in mente fin dall'inizio un'idea di massima della storia che il gioco racconterà e del finale verso cui punta, fermo restando che ovviamente nel corso dello sviluppo le cose possono cambiare e si può finire per dirigersi verso un finale differente (come è del resto accaduto con Ico).
Ma come raccontare una storia in un videogioco? Per Ueda non è importante approfondire ogni singolo dettaglio, spiegare tutto per filo e per segno, imboccare il giocatore ed evitare che, una volta giunto al termine, gli rimangano in testa delle domande. Anzi, funziona molto meglio il contrario, l'essenziale, il simbolico, un po' come – dice Ueda – fanno in Giappone con gli haiku o anche come i film migliori, quelli che ti restano dentro e ti lasciano delle domande, senza doverti spiegare proprio ogni cosa. Non spieghi tutto, metti lì quel che hai da dire e lasci che venga interpretato dall'immaginazione altrui. Così facendo, ognuno si crea la sua versione della storia, seguendo un percorso che, allo stato attuale, è forse il migliore per i videogiochi. Magari in futuro si troveranno nuove vie, dice Ueda, ma oggi va così.
Come lavora, Fumito Ueda? È un dittatore? È precisissimo ed esigente nelle sue richieste? Lascia fare? Ovviamente, lascia fare. Soprattutto, un po' come le storie che racconta, gli piace proporre concetti ma rimanere sul vago, lasciare che siano i suoi collaboratori a riempire gli spazi e metterci del loro, anche a costo di qualche frustrazione. E ciò che più ama, del processo di sviluppo di un gioco, è la parte iniziale, quella fase in cui si sparano idee a raffica, magari anche un po' a caso, ci lascia prendere dall'ambizione, si esegue il lavoro di ricerca. Quando invece bisogna smettere di ideare cose nuove e concentrarsi sul chiudere quel che c'è, sul portare a casa il progetto, Ueda si diverte molto meno. E ancora meno si diverte durante l'interminabile trafila di riunioni, purtroppo necessarie quando si lavora per grosse multinazionali.
Ma, a proposito di idee, come mai questa specie di alternanza, nei suoi giochi, fra ambientazioni aperte, costrette, e altre open world? Beh, al di là del fatto che non è sicuro di voler definire Shadow of the Colossus come un open world, è anche una questione di stimoli ed esigenze personali. Dopo aver lavorato per quattro anni su Ico, quindi su un gioco appunto "costretto", ragionato sui suoi corridoi e le sue stanze, con la sua opera successiva ha sentito l'esigenza di far esplodere gli ambienti verso una dimensione più ampia, e anche per questo è nato Shadow of the Colossus. The Last Guardian l'ha visto tornare verso contesti più raccolti e adatti a raccontare la storia di un rapporto intimo fra due personaggi. A questo punto, dopo tanti anni spesi di nuovo a lavorare in quella direzione, è forse inevitabile che il suo prossimo gioco torni ad "aprirsi". Ma è presto per fare annunci.
Ma che tipo di videogiocatore è, Fumito Ueda? Beh, innanzitutto uno che evita il più possibile di metter mano alle sue produzioni, perché finisce per osservarle con occhio esageratamente analitico/critico da insider e vederne solo i difetti. Cerca, però, di giocare a tutto ciò che è popolare e ha successo, per mantenersi aggiornato sui gusti della gente. E se deve indicare il suo gioco della vita, quello che gli è rimasto nel cuore, punta tutto su Another World, per la maestria con cui ti dava l'impressione di trovarti davvero in un mondo altro e per la capacità di far sembrare vivo il coprotagonista che ti accompagnava. Lo dico? Lo dico: quando ho giocato ad Ico, in effetti, un po' mi era venuto in mente.
E se il capolavoro seminale di Eric Chahi ha avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione di game designer, lo ha fatto anche la sua gioventù da ragazzino immerso fra gli animali, come probabilmente ha intuito fin troppo bene chiunque abbia giocato a The Last Guardian. Quando Ueda era un bambino, i suoi genitori avevano tanti animali, cani, gatti… perfino una scimmia. E lo lasciavano giocare con insetti… serpenti… praticamente qualsiasi tipo di essere vivente. Per questo, spiega, quando lavora sull'inserimento di animali nei suoi giochi, gli animatori utilizzano video e materiali di riferimento, mentre a lui bastano i ricordi dell'infanzia per capire se un'animazione non funziona. E, insomma, visti i risultati, è difficile dargli torto.