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Dumbo: c’è un elefante nella stanza, e purtroppo non è ubriaco

Dumbo: c’è un elefante nella stanza, e purtroppo non è ubriaco

Il Dumbo di Tim Burton ha diversi problemi ma, prima di entrare nel merito di ciascuno, preferirei levarmi dalle scatole il più indigesto: gli elefanti rosa analcolici.

Ora, la mia prima esperienza con il Dumbo originale animato del 1941 non si consumò, ovviamente, nel 1941, ma così, a naso, direi più o meno quarant’anni dopo, quando il film venne riproposto in seno a non so più quale rassegna di non so più quale sala. Però Dumbo lo vidi senz’altro al cinema, quello lo ricordo bene, ché i miei genitori mi ci portarono convinti di fare cosa gradita: voglio dire, cosa ci potrebbe essere di più zuccheroso e conciliante, per un bimbetto delle elementari, della storia di un elefantino volante?

La risposta, cari mamma e papà, ve la consegna direttamente il me stesso traumatizzato del futuro, ed è: “Un sacco di cose”. I classici Disney, proprio come le fiabe, erano (e sono) pieni di robe spaventosissime; infinitamente più terrorizzanti di certi horror che mi sparavo di straforo in seconda serata o dei temibili cartoni giapponesi.

Come se non bastassero streghe, stregatti e regine assetate di sangue, a rendere i film ancora più perturbanti ci si mettevano certe sequenze musicali sicuramente figlie degli allucinogeni che si sparavano gli animatori e i registi giù a Burbank. Tra tutte, quella più incredibile è forse la parata degli elefanti rosa che investe il cervello di Dumbo, temporaneamente in pappa dopo una sbevazzata involontaria.

«Grazie, Rosafante, ci sei sempre, quando ho bisogno!».

Ora, seriamente e bando alle cazzate, quella sequenza rappresenta un trionfo di animazione pura e astratta che, tuttavia, riesce a non fare uscire lo spettatore dai ranghi della sospensione dell’incredulità. E ci riesce grazie al mirabile equilibrio attraverso cui viene sia introdotta che congedata; un equilibrio che manca totalmente al film di Burton.

Nel nuovo Dumbo, i rosafanti non sono il frutto di un’allucinazione etilica alla Barney Gumble, ma appaiono in seno a uno show di acrobati-prestigiatori. Bolle di sapone. Ora, il problema, per quanto mi riguarda, non sta tanto nel fatto che abbiano segato una scena con un minorenne (elefante, ma pur sempre minorenne) ubriaco. Quello, tutto sommato, pertiene la rielaborazione del gusto e del senso del limite che il cinema ha attraversato durante gli ultimi ottant’anni: per ogni sbronza che viene via, c’è pure qualche pucciata sessista o razzista in meno, quindi OK.

No, il problema è la misura. Quelle bolle, che all’inizio galleggiano appena sopra l’asticella del credibile, piano piano cedono al trip della computer grafica e sballano totalmente. Solo che stavolta non c’è una rete di protezione animata sotto di loro, ma una trappola di ghisa in live action. Ed è un problema.

«Ma a te, quanto ti hanno pagato, per stare qua?».

È un problema, perché la sequenza dei rosafanti riflette lo squilibrio che infesta tutti i registri estetici del film di Burton, costituendone il limite più vistoso e facendo inevitabilmente rotolare a valle anche tutto il resto. Emblematicamente goffa, in questo senso, la scena di Eva Green che cavalca quel povero elefantino in treddì (anche se dalla regia mi dicono: “Still, Eva Green che cavalca”).

Peccato, perché la scelta di spostare l’asse dal fiabesco al - prendetela con le pinze - realismo, in sé, non è malvagia. Attorno a Dumb,o non ruotano più corvi e topolini: al loro posto ci sono il reduce di guerra Holt Farrier (Colin Farrell); la sua giovanissima figlia Milly (Nico Parker), una nerd appassionata di scienza col mito di Marie Curie, e il fratellino Joe (Finley Hobbins)

C’è Danny DeVito, perfetto nella parte del cialtrone dal cuore d’oro che, nonostante le apparenze, fa di tutto per tenere assieme il suo circo di freak (di quelli tanto cari a Burton, ma anche a Browning e a Lynch, che non mancano di venir citati). All’altra estremità del ring c’è Michael Keaton, che dovrebbe essere il Willy Wonka della situazione ma esce un po’ troppo dalle righe e finisce per mancare il bersaglio.

Venendo a Dumbo, ho trovato il character design del personaggio piuttosto azzeccato. Il mix tra lo O style della Disney vecchia maniera e l’inconografia di Ganesh, a cui si aggiungono altre suggestioni induiste, ben si impiatta con la dimensione di “divinità caduta dal cielo nel posto sbagliato” che il film vuole attribuire all’elefantino.

Il problema di questo remake non sono tanto le premesse, ma le mancate promesse. Soprattutto, l’assenza di coesione formale a cui l’estetica e la poetica di Burton, al netto di qualche buona idea visiva, non fanno che aggiungere ingombri.

«Ne ho vedute tante da raccontar, giammai gli elefanti volar!».

Certamente non aiuta nemmeno la scrittura di Ehren Kruger, che oltre a impicciare il ritmo e a svilire un po’ il protagonista, finisce per perdersi in un vortice di locura. Mano a mano che la storia si sviluppa, i comportamenti dei personaggi diventano illogici e privi di senso e tutti quei vaghi discorsi sull’importanza della scienza e del “superiamo il passato e guardiamo avanti” tradiscono la loro funzione di rattoppi.

Non sono filosoficamente contrario ai remake Disney in live-action, perché dovrei? E tutto sommato, con Il libro della giungla e Cenerentola mi ero divertito. Durante la visione di Dumbo, invece, la mia sospensione dell’incredulità è andata a picco, ho provato disagio e mi sono pure annoiato.

Ho guardato Dumbo in anteprima e in lingua italiana grazie a una proiezione stampa in quel di Milano, alla quale siamo stati cortesemente invitati. Mi ha detto culo, perché ho letto in giro che all’anteprima di Roma c’era anche Salvini.

L'elefante nella stanza.

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