Paperback #32: Ghost in the Shell, piccolo mondo cyberpunk
Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.
La casa editoriale Kodansha, nel 1989, pubblica in Giappone, sulla rivista Young Magazine, Ghost in the Shell. Che solo poi in madrepatria sarà conosciuto con questo nomignolo, tutto americano, ma che all’epoca è soltanto Kōkaku Kidōtai (qualcosa come “Squadra mobile munita di corazza offensiva”). L’opera di Masamune Shirow (alias di Masanori Ota) viene poi raccolta in un unico volume nel 1991. Uno solo, un miracolo se pensiamo che oggi la popolarità obbliga a centinaia di capitoli divisi in decine di tankobon.
Setting futuristico, look praticamente unico, Ghost in the Shell porta con sé un vecchio modo di fare, oggi impossibile da trovare nei manga mainstream, con l’eccezione di Detective Conan: quella degli episodi autoconclusivi. C’è però anche il filo conduttore della robotica, dell’identità, del confine fra vita e non vita, tutto quello che la fantascienza racconta da sempre, ma che nel fumetto giapponese mai era stato fatto in modo così impattante. Impattante, per altro, lo diciamo ora, perché all’epoca il successo di Ghost in the Shell non fu gigantesco. Fecero seguito due altri capitoli, Ghost in the Shell 1.5 e il 2.0, che portarono addirittura Shirow a non lavorare più nel campo dei manga, tanto la terza opera fu un flop.
Lo straordinario modo di lavorare di Shirow c’era comunque tutto, il suo maniacale metodo di creazione di un mondo, fatto di note e dettagliate spiegazioni che venivano messe nell’opera stessa, magari a pié pagina. Politica, tecnologia, geografia, il mangaka sembra essere più interessato a suggerire un universo che a raccontarlo. A descrivere un setting più che una storia. E c’è la sperimentazione visiva. Il primo dei tre manga è più grezzo, viscerale, un tratto che verrà ripulito con l’1.5 (raccolta di capitoli pubblicata dopo il 2.0) e che più forse si avvicina al look del film d’animazione. Nel 2.0 arrivano i colori in rendering che si alternano al disegnano classico, scontentando il pubblico giapponese, che forse si aspettava qualcosa che proseguisse il discorso già avviato con le prime due opere. E qui il già citato stop, dal 2003 circa, che vedrà Shirow riuscire a usare la sua verve narrativa solo intorno al 2012, solo come sceneggiatore, con Pandora in the Crimson Shell: Ghost Urn.
Negli anni di buio, ha comunque vissuto grazie alla pubblicazione di artbook, anche grazie alla popolarità della versione animata della sua creazione, portata nell’olimpo dell’animazione da Mamoru Oshii. Anche affacciandosi oggi al manga, conoscendone l’importanza seminale (ciao, Bittanti!) è chiaro come l’allievo abbia superato il maestro. Non che Oshii sia allievo o Shirow suo maestro, ed è bene chiarire che il regista rimase stregato dal mondo creato dal secondo, ma nel Gioco della Torre nessuno si sentirebbe di salvare l’opera cartacea sacrificando il film animato. Anche se ci sono tavole che sono letteralmente esplosioni di cuore per gli hardcore fan del cyberpunk e il 2.0 era forse troppo avanti coi tempi. Andrebbe recuperato in formato cartaceo, si trova dappertutto, anche in una bellissima edizione ristampata da Star Comics con l’uscita del film live action, con addirittura la versione di 1.5 con CD-Rom allegato. Tremendamente cyberpunk.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.