Meglio Journey che male accompagnati
Sono sempre stato un colossale piangina, e con la vecchiaia non sono migliorato. Non è mai stata necessariamente una questione di tristezza o di dolore, anzi, quelle sono le situazioni in cui la lacrima mi esce meno facilmente (e, chiaro, quando esce si fa torrente). Sono al contrario le esplosioni emotive, anche positive, o magari figlie della tensione estrema, a provocarmi il gocciolone. Il fastidio per l'interrogazione andata male ai tempi della scuola, il nervosismo per una situazione particolarmente tesa allora come oggi, l'emozione pura di un'immagine potente subita nel buio di una sala cinematografica, da sempre e per sempre. E sono quindi, inutile negarlo, vittima facile di chi vuole farmi emozionare o commuovere: un paio di settimane fa sono andato al cinema per War Horse e ho pianto come un rubinetto aperto dall'inizio alla fine. Perché dico tutto questo? Perché il modo migliore per descrivere l'esperienza che risponde al nome di Journey sta nel far presente che l'ho giocato, dall'inizio alla fine, con la bocca spalancata, la salivazione azzerata e gli occhi costantemente gonfi. Sta nel dire che in quelle fasi finali, che non svelerei nemmeno sotto tortura, m'è esploso tutto un turbine dentro che io non ci credevo ma neanche guarda, e ho visto gente sconvolta perché mi osservava arrivare ai limiti del singhiozzo davanti a un videogioco. E sta pure nel fatto che giocare a Journey è la cosa più vicina al ritrovarsi in un film dello Studio Ghibli che possa venirmi in mente. Game, set and match: thatgamecompany mi ha sconfitto ancora una volta.
Dire che il cuore dell'esperienza offerta da Journey sia il viaggio è talmente semplice da far ridere, ma è anche sostanzialmente la verità. Nel gioco di thatgamecompany, incredibile ma vero, c'è perfino meno gameplay di quel che ci si possa aspettare. Ce n'è di meno che in Flower, nonostante un sistema di controllo più “complicato” rispetto a quello di Flower (virgolette d'obbligo, considerando che si tratta di premere due tasti, muovere un personaggio e aggiustare un'inquadratura). Si trascorre il tempo esplorando ambienti e sensazioni fuori dell'ordinario, inseguendo il miraggio di un passato ignoto da scoprire e di una montagna lontana che ci invita con la misteriosa luce che ne illumina la vetta. Gli “enigmi” da risolvere si meritano anche loro le virgolette, perché sono davvero poca cosa, e la natura più strettamente videoludica – in senso classico – del tutto sta al massimo nell'esplorare di fino le ambientazioni per scovarne i segreti nascosti o, al limite, nel particolare approccio al multiplayer. Ma questo non significa che in Journey manchi il puro piacere del giocare con un sistema di controllo ben calibrato, di imparare a padroneggiare il gusto del surf sulle dune desertiche, di scivolare fra i suoi momenti più classicheggianti, che ti spingono a cercare un nascondiglio per sfuggire allo sguardo di un pauroso mostro, o a saltare a ripetizione per cercare di inerpicarti su quella cima che nasconde un affascinante segreto. Il punto è che il cuore dell'esperienza sta altrove.
Se dai videogiochi si cerca solo la spremuta di gameplay, è meglio rivolgersi altrove. Se invece del videogioco si apprezza anche la capacità di comunicare un racconto, delle emozioni anche molto forti, attraverso il puro piacere dell'interazione, Journey è un capolavoro imperdibile. L'obiettivo di thatgamecompany era coinvolgere il giocatore con un turbinio di sentimenti lontano anni luce dalla furia, dalla tensione, dall'adrenalina e dall'agonismo che si respirano solitamente con un pad in mano. Tutto, in Journey, spinge in altre, fantastiche direzioni. Nel farti provare un forte senso di solitudine, nel sottolineare l'impotenza umana di fronte all'immensità di ciò che ci circonda, nello scatenare una violenza emotiva pazzesca attraverso il gusto per l'esplorazione e nel dare al concetto di incontro online con altri giocatori una valenza tutta nuova. Il fascino dell'ignoto, dell'incontro con chi sconosciuto lo è per forza e per davvero, la difficoltà nel comunicare senza poter condividere un linguaggio, il gusto di scoprire se e quanto si voglia davvero proseguire mano nella mano. Journey è tutto questo ed è tanto altro. Non è un gioco assemblato con bit, pixel, numeri e texture. È fatto d'emozioni. E lascia senza fiato.
Dopodiché, potrei mettermi qui a parlare di quanto sia difficile assegnare un voto a Journey, perché alla fine non è un videogioco vero e proprio, perché può non piacere, perché è un'esperienza piuttosto breve, perché dipende da cosa cerchi quando accendi la tua pleistescion e blablabla. E sarebbero tutte minchiate. Per caso ci si fanno problemi ad assegnare il massimo dei voti, che so, a un gioco sportivo o a uno sparatutto, solo perché “c'è chi non apprezza i giochi sportivi o gli sparatutto”? Esatto, no. Un'opera va valutata in base a quanto bene riesca ad essere ciò che si propone d'essere. Quindi io a Journey metto il massimo dei voti. Perché quella cosa lì la fa come nessun altro gioco prima di lui e, ci scommetto, come in pochi riusciranno in futuro a fare altrettanto bene. Se poi a uno quella cosa lì non interessa, beh, certo, non gli interessa nemmeno Journey. E a quel punto può anche accomodarsi fuori dalla porta, e chiuderla, che fa corrente. E non rivolgermi mai più la parola.