Nippophìlia #45 – Domoarigatògozaimàs! Sono giapponese! Cinciònciàn!
Ludophìlia (con l’accento così) non è una malattia venerea, ma un’incomprensibile rubrica di approfondimento videoludico che corrobora mente e joypad, curata da uno che l’avrebbe addirittura voluta intitolare “I Love Naomi Kyle”. E invece no, basta col Quebec, io amo Jessica Lopez. Se le scatole dei vecchi videogiochi giapponesi (esposte con rigore a Super Potato o in qualsiasi altro bugigattolo) ci sembrano minute e adorabili (mentre noi esaltiamo la grandezza, il verde fluorescente e la sguaiatezza), non è tanto a causa della loro misura, ma perché ogni artefatto videoludico sembra incorniciato. La miniaturizzazione non deriva tanto dalla misura, ma da una sorta di precisione che l'OMI dagli occhi a mandorla mette nel delimitare il proprio gameplay. Come involucro, schermo, maschera, essa vale per ciò che nasconde, protegge e pertanto designa (gameplay e divertimento). Dà il cambio monetario e psicologico d'un oggetto vuoto, che vale il suo prezzo in yen per il solo fatto d'essere così finemente confezionato e bellino. Ma ciò che essa racchiude e significa è lungamente rimandato a un dopo (quella del futuro inserimento del contenuto in una console accesa), quasi la funzione del pacchetto non fosse tanto quella di proteggere nello spazio, quanto di rimandare il suo godimento nel tempo. È nell'involucro nipponico, infatti, che sembra concentrarsi il lavoro del vecchio creatore di videogiochi, e attraverso tutto questo processo il software perde la propria esistenza, diventa miraggio. Sperimentare il gameplay che sta nel pacchetto, ovvero il significato che sta nel segno, significa infatti gettarlo via, consumandolo. La ricchezza dei vecchi videogiochi giapponesi e la profondità del loro senso non sono congedati che al prezzo d'una tripla qualità, imposta in tempi remoti a tutte le OMI dell'estremo Oriente: ch'esse siano precise, minute e fregiate di artwork più belli del gioco vero e proprio.
Oppure…
Il pachinko è un gioco collettivo e solitario. Le macchine sono disposte in lunghe file. Ognuno, dinanzi al proprio quadro, gioca per se stesso, senza guardare il vicino con cui sta gomito a gomito. Non si sente che il brusio delle biglie lanciate, una baraonda di scampanellii, tintinnii e fragore assordante, eppure perfettamente ammaliante. La sala è come un alveare, un'officina: i giocatori sembrano lavorare a una catena di montaggio, immersi in una fatica (ludica) intensa, assorta. Gli apparecchi di pachinko sono delle mangiatoie allineate; il giocatore, con un gesto rapido, ripetuto così fulmineamente che si direbbe ininterrotto, alimenta la macchina di palline, la ingozza. Di tanto in tanto, la macchina strapiena libera la sua diarrea di biglie. Per pochi yen, il giocatore è investito da ondate di monete. Si comprende così la serietà di un gioco che oppone alla costrizione della ricchezza capitalista, alla parsimonia dei salari, il crollo voluttuoso delle biglie argentate, che d'un colpo inondano le mani del giocatore. Le mie, invece, occidentale in visita nipponica incurante di sperpero, stringono il Game & Watch arancione di Donkey Kong appena acquistato (a carissimo prezzo!), mentre assisto al rituale e procrastino il gameplay con Jumpman in luogo appartato.
E una frittura per gradire…
La tempura è alleggerita dal significato di pesantezza che noi attribuiamo tradizionalmente alla frittura italiana e/o mondiale (con olio Castrol). La farina è così leggermente stemperata che forma un latte, non una pasta. Catturato dall'olio, questo latte dorato è così fragile che ricopre imperfettamente il frammento di cibo, lascia apparire il rosa di un gamberetto, il verde di un peperoncino o il bruno di una melanzana, sottraendo così alla frittura quello di cui è composta la frittella specialmente abruzzese: la crosta, la compattezza, oppure un calzone ripieno di Mafalda, dal peso lordo di settandanove chili di colesterolica bontà. Nella frittura giapponese, per paradosso culinario, non v'è pesantezza, ma estrema leggerezza. Salutare.
Domoarigatògozaimàs.