Ludophilia #7 - I videogiochi sono "una cosa seria"
Una rubrica di approfondimento che corrobora mente e joypad, curata da uno che l’avrebbe voluta intitolare “I Love Tara Long”. Il dato di fatto sconcertante è che oggi, nella coscienza di gran parte degli adulti, il videogioco si oppone ancora all'idea di serietà.
Relegato nel limbo dell’evasione, del non serio e dell’inutile, il videogioco ha sempre richiesto ai suoi paladini lunghe apologie, pur di strappare una qualche riabilitazione in quanto oggetto degno d'indagine approfondita. Già in passato Sigmund Freud, Johan Huizinga e nondimeno Chop Chop Master Onion di Parappa the Rapper si sono duramente battuti per nobilitare il medium ludico, ribadendo che il contrario di (video)gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale. Addirittura, spiegando che il concetto di gioco come (digi)tale appartiene a un ordine superiore a quello di serietà, poiché la serietà cerca di escludere il gioco, mentre il gioco può includere benissimo la serietà.
I videogiochi, in verità, non inghiottono le menti nell'impaccio dell'insignificanza e non sono affatto un certo tipo di rappresentazione dell'incompiuto. Non sono finzione tesa al mero e frivolo intrattenimento, ma un manuale di istruzioni (interattivo) attraverso il quale fornire un senso ordinato e plausibile alla nostra realtà. Giocando si tenta una comprensione del manto diveniente del mondo. "L'esistenza e il senso stesso dei videogiochi confermano senza tregua e in senso superiore il carattere sopralogico della nostra esatta situazione nel cosmo." L'esperienza videoludica apre, dunque, alla possibilità per un "altro" spirito di serietà, certo più inquietante, ma notevolmente meno bigio e soffocante di quello che è innato in certi individui, che sono sempre seri e fin troppo compassati.
Anzi, si può ragionevolmente affermare che lo snobismo che costoro s'ostinano a riservare ancora oggi nei confronti dei videogiochi segna il riflesso della loro stessa rinuncia nei confronti della verità, della Vita, del bellissimo concetto di infinito e della condizione umana in particolare. Non fanno altro che chiamarli "giochini", "giochetti" o "futili passatempi per debosciati", poi li confinano al ruolo del superfluo, del superficiale, dell'inutile o del puerile, quindi si scansano di dosso qualsiasi forma di ludus, presumendo che sia affare buono solo per bambini o per grandi immaturi. Se vedono gli esperti del (video)gioco avvilupparsi sui controller e maneggiare abilmente del gameplay, provano addirittura pena e li chiamano spacciati, falliti, perdigiorno. Secondo il loro tracotante e sussiegoso giudizio, i videogiochi non servono neppure per passare il tempo, ma sono certamente buoni per sprecarlo: ne rifuggono con disumano pudore il senso e ne ignorano la basilare importanza, la loro estrema importanza e serietà.
Tutti quelli che, quando si parla di videogiochi, tendono solitamente a dire ciò che essi non sono ("non sono reali", "non sono seri"), non riusciranno mai a trovare il tasto R3 sul joypad o uno sceicco nascosto in una grotta.