Racconti dall'ospizio #214: Pigia ripetutamente X per vincere: Zero Escape, tutti e tre
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Ma che ne so io di fantascienza giapponese, vecchia o nuova che sia.
Che ne so di Alita e di Akira e di Evangelion, ho letto a malapena qualche Murakami, e manco mi è piaciuto granché.
Non è snobismo o disinteresse, semplice questione di tempo limitato per fare le cose e necessità di scegliere dove approfondire e dove lasciare che siano altri a sguazzare.
Cosa ci fa quindi un mio pezzo nella Cover Story del mese? Succede questa roba bellissima: non è mai una buona idea parlare di qualcosa che non si conosce approfonditamente, ma nessuno vieta di piluccarla qui e là, per intuirne almeno il sapore, e di affondare i denti in qualcosa che, pur con tutte le sue idiosincrasie, riesce nel miracolo di cantarti una canzone che conosci e che ami. Non so se quanto ho scritto abbia un senso, ma la prima volta che ho giocato a 999 su Nintendo DS ci ho trovato, sepolto sotto strati di incomunicabilità e pessimo engrish, qualcosa, e sono diventato all’istante un fanboy.
La storia dice che nel 1994 su Super Nintendo uscì per Chunsoft, quelli dei primi Dragon Quest, la visual novel Banshee's Last Cry. Dicesi visual novel una roba che si spiega da sola: un librogame, solo che sullo schermo della TV; quindi: leggi paragrafo, a fine paragrafo decidi cosa far fare al tuo personaggio, passi al paragrafo successivo. A grandi linee. Ci sono le scelte, i finali alternativi e una traduzione in inglese uscita solo nel 2014 per i cellulofoni di Steve Jobs: Banshee's Last Cry non è quello che si definisce un successone, almeno qui da noi in Europa e Iu Es of Ei – in Giappone vende uno spavento di copie, e in occasione della sua uscita Chunsoft registra pure il trademark per il termine "sound novel", che fa cagare ma tutto sommato rende l'idea di cosa sia il prodotto.
Più di tutto, Banshee's Last Cry è una proof of concept che funziona e che Chunsoft, più tardi Spike Chunsoft, decide di infilare nel cassetto in attesa che i tempi siano maturi. In mezzo si dedicano agli RPG, ai Pokémon, a Dragon Quest, a Shiren the Wanderer, tutta roba che spazia dalla tradizione pura alla sperimentazione più selvaggia ma che mette sempre e comunque al centro di tutto il gameplay, le statz, gli aspetti più da foglio Excel dei giochi di ruolo, insomma, e quelli che più di tutti contribuiscono a costruire un ponte tra Oriente e Occidente (...). Voglio dire che tra BLC e 999 ci sono quindici anni di conquista del West a botte di slime blu e termini assurdi tipo "Materia", durante i quali, l'idea di portare un romanzo (o un manga, credo) su console rimane nel cassetto dei signori Chun e Soft e del loro amico Spike.
Come, cosa e quando è il momento giusto per ritirarla fuori?
La risposta è «avete visto il DS?». Assomiglia a un libricino da sfogliare, i due schermi consentono di giocare con i tradizionali confini dell'inquadratura e se serve di romperli, e in più ce l'hanno tutti. Aggiungeteci che proprio dal Giappone arrivavano in quel periodo (un po' prima, in realtà, non rompete) i primi giochini per browser basati sul concetto di "scappiamo da questa stanza chiusa e piena di enigmi", e che Kotaro Uchikoshi, l'uomo dietro alla trilogia di cui parliamo qui, voleva tantissimo non solo farne uno, ma trovare il modo di usare suddetti enigmi e suddette stanze per raccontare una storia – i quiz diegetici, o qualcosa di simile. È così che nel 2009 nasce 999 – Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors, un clamoroso capolavoro snobbato da tutti (soprattutto dal pubblico giapponese), strapieno di idee ma povero di soldi. Ed è sempre così che nascono Virtue's Last Reward e Zero Time Dilemma, i due capitoli successivi di una trilogia che, a conti fatti, piacerà di più in Europa e America che nel natìo Sol Levante.
La filologia vorrebbe che trattassi i tre capitoli separatamente, ma il buonsenso mi suggerisce che la vita è troppo breve e che, tutto sommato, le tre teste del cerbero sono lo stesso gioco, al netto dei prevedibili miglioramenti e aggiustamenti dovuti all'esperienza. E quindi: di cosa parliamo? Ci sono nove persone, intrappolate [in un posto] da un pazzo di nome Zero, che li ha riuniti per farli partecipare a simpatici giochini di enigmi e massacri che assomigliano a quelli di Saw e che si chiamano, con una delle tante espressioni in broken English che caratterizzano la saga, i "Nonary Games". Ora, i dettagli dei Nonary Games sono infiniti e, in ossequio alla giapponesità del prodotto, ci vengono spiegati e rispiegati e ribaditi e approfonditi un miliardo di volte nel corso del gioco; e le minuzie, i braccialetti numerati, il voto, i tradimenti, le morti, vi risparmio tutto perché vorrei che vi rimanesse qualcosa da scoprire quando ci giocherete. Di base, però, il concetto è: c'è una porta che dovete aprire per uscire da qui, e per aprirla dovete prima aprire altre porte, e per aprire queste porte dovete risolvere degli enigmi, esattamente come nelle escape room che tanti brutti horror ci hanno dato in questi ultimi anni.
Il gioco, dunque, è tutto qui: risolvere infinite variazioni della Crimson Room di quando eravamo giovani e, tra una stanza e l'altra, pigiare molte volte il tasto X per far andare avanti i dialoghi.
Eppure, come diceva anche Indiana Jones, «non è la forma, sono i contenuti».
999, VLR e ZTD sono roba scritta da un tizio che si è letto tutta la fantascienza, che conosce tutti i complotti, che è un esperto di tutta la pseudoscienza, che ama le sorprese i colpi di scena, che è convinto che la filosofia possa trovare spazio ovunque, anche tra un omicidio e l'altro, e che ha un gusto pazzesco per gli scarti di tono improvvisi e per l'esplorazione degli abissi dell'animo umano, anche quando questo umano è rappresentato da ragazzin* in età collegiale o poco più. Come nei migliori mystery, non si gioca a ZE – sta per Zero Escape ed è il nome dell'intera saga, forse potevo tirarlo fuori prima – perché gli enigmi sono divertenti (per quanto lo siano), né per godersi il raffinatissimo gameplay (quale gameplay?), ma per scoprire tutto quello che è successo prima che il gioco cominciasse. Chi sono i nove prigionieri di turno? Come sono finiti lì? Dove sono intrappolati? Le solite cose che, andando a scavare, diventano sempre più assurde e fanno scaturire domande (occhio che qualcuno potrebbe dire che le prossime tre righe sono SPOILER, quindi nel caso ignorate i virgolettati tranne l’ultimo) tipo «è vero che il mondo è finito?», «è vero che là fuori c'è una pandemia?», «siamo davvero intrappolati sulla Terra?», «perché questo personaggio ha un'armatura tipo Iron Man?», «esiste la telepatia?», «che cos'è la risonanza morfica?». Sono serio, il concetto di "risonanza morfica" viene discusso frequentemente e con rigore assoluto, perché una delle meraviglie di Zero Escape è la faccia serissima con cui tratta la sua mitologia e la sua narrativa, narrativa che peraltro trova spazio per personaggi tipo questo.
È facile derubricare il tutto a "la solita follia dei giapponesi", e magari neanche sbagliato. Il punto è che scrivere una trilogia di storie che parlano di robot, lolite, epidemie, massacri e risonanza morfica è relativamente semplice, basta pigliare tutti gli spunti e sbatterli in un frullatore; più difficile è dar loro un senso e, soprattutto, trovare il modo di plasmare il gioco intorno alla storia e di rompere il confine tra struttura e sostanza. Come ogni narrazione non lineare che si rispetti, i tre Zero Escape non hanno una sola conclusione ma i classici "finali multipli"; e fin qui OK, il dettaglio interessante è come ci si arriva: avete presente Cumberbatch, Tennismatch, Bandersnatch, insomma quella roba di Black Mirror che il giorno dopo che è uscita Internet era piena di flowchart che ti servivano a capire come sbloccare tutti i finali? Ecco, Zero Escape prende questa idea e la trasforma in un superpotere, nel senso che i protagonisti possono saltabeccare avanti, indietro e di lato nel tempo e spostarsi fra mille timeline parallele (e, all'atto pratico, all'interno della gigantesca flowchart del gioco) nel tentativo di risolvere il mistero della loro condizione; è tipo come fare savescumming IRL, con sopra una deliziosa passata di paradossi temporali e di gente che scopre cose sul futuro e torna nel passato ad applicarle per cambiare suddetto futuro.
«Hold the nine doors!».
Ci sono ovviamente dei problemi, a cominciare dall'inevitabile imbarazzo provocato dal dover passare decine di ore in compagnia di (pre?)adolescenti ammiccanti e poco vestite – un problema al quale sembra impossibile sfuggire nel momento in cui si decide di giocare al Giappone, ma immagino che #notalljapanese –, proseguendo con la considerazione che l’intera trilogia soffre del problema (a un livello di gravità quasi pari al caso Danganronpa, un'altra splendida tripletta di visual novel di Spike Chunsoft) di avere protagonisti che oscillano tra “insopportabile” e “irrecuperabile idiota”; e ci sono magagne meccaniche e di presentazione sparse qui e là, alcune eredità dei tempi del DS (c'è tutto un discorso da fare sul finale di 999), altre addirittura inventate e implementate in occasione dei sequel. C'è anche il rischio di rimanere respinti dal fatto di avere di fronte tre "giochi che non sono giochi", di lamentarsi che «non faccio altro che pigiare X allora mi leggevo un libro», c’è persino, al contrario, se arrivate dal lato narrativomanga della questione, la possibilità che perdere del tempo a risolvere i quizzini di logica che si frappongono tra voi e il dialogo successivo vi faccia desistere e tornare ai vostri fumetti.
C’è insomma il fatto che la natura di prodotto ibrido di Zero Escape faccia da ostacolo presso le folle hardcore, ma c’è anche il fatto che stiamo parlando di giochi di dieci anni fa, sui quali immagino che le folle hardcore abbiano già emesso il loro giudizio da tempo, quindi forse non c’è nessun ostacolo e quello che rimane è convincere gli indecisi e i dubbiosi e in generale quelli che non sono fan né di un estremo né dell’altro che dentro l’opera di Uchikoshi ci sono tante cose bellissime da scoprire e da godere anche per chi, come il sottoscritto, non bazzica abitualmente questi cortili.
Tra queste cose, ci sono la risonanza morfica e i campi morfogenetici.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.