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Bright: Orco buono, poliziotto cattivo

Bright: Orco buono, poliziotto cattivo

Non so chi disse quella roba che il miglior consiglio da dare a uno scrittore è che dovrebbe innanzitutto raccontare storie su argomenti che conosce bene, però credo che quel tale avesse ragione. Sostituiamo “scrittore” con “regista” e applichiamo la regola a David Ayer.

David Ayer è un tipo giusto, cresciuto sulle strade dei sobborghi di Los Angeles, gomito a gomito con gente poco raccomandabile. Uno che il genere poliziesco ce l’ha cucito addosso, perché probabilmente certe situazioni le ha viste (e forse vissute) in prima persona. E infatti, da Training Day in giù, la sua carriera è segnata prevalentemente da storie di poliziotti, corruzione, droga e gangster. Non sarà un genio, e forse non potrà mai aspirare a diventare qualcosa di più di un onesto mestierante, ma, prima come sceneggiatore e poi anche dietro la macchina da presa, Ayer si è dimostrato particolarmente bravo, non solo a tratteggiare personaggi borderline, ma anche a mettere in piedi situazioni di grande tensione e dirigere come Dio comanda sequenze action coinvolgenti e appassionanti. Dopo il tesissimo End of Watch, che rappresenta un po’ la summa del suo cinema crime thriller, ha anche dimostrato di saper gestire la situazione fuori dalla sua comfort zone con Fury, film di guerra con personaggi meravigliosamente stronzi, immersi in un contesto bellico disumanizzante, che mette in scena un combattimento fra due carri armati che merita di essere ricordato.

Non lo so cosa sia andato storto con Suicide Squad: apparentemente una storia di criminali fuori di melone doveva essere pane per i denti di Ayer e invece non è che la montagna ha partorito il topolino, ha proprio cagato fuori una pila di sterco irricevibile. Sarà stato il cambio di tono imposto dalla Warner in corso d’opera, oppure un fisiologico passo falso, non lo so. Sta di fatto che ho odiato Suicide Squad con tutto me stesso e ho temuto che Ayer, convinto di aver girato un cult, si fosse bevuto il cervello.

Tuttavia il colpo di grazia non è stato Suicide Squad, quanto piuttosto l’annuncio di quello che sarebbe stato il suo progetto successivo: Bright, ovvero un urban fantasy, con Will Smith, scritto da Max Landis. Tre cose che da sole bastano ad angosciarmi, figuriamoci messe insieme.

Ma andiamo con ordine. Ho sempre pensato che mescolare elementi fantastici con la nostra realtà di tutti i giorni fosse un po’ un’idea del cavolo, ma più in generale ho qualche problema con l’urban fantasy più o meno da quando qualcuno mi consigliò il primo libro della serie Shadowhunters dicendomi “È bello, è un urban fantasy!”.

Will Smith ho iniziato a mal digerirlo da quando ha raggiunto lo status di “star che ha incassato al botteghino abbastanza da avere un qualche potere contrattuale sulla sceneggiatura”. Non è che sia mai stato un attore versatile, eh, però da un po’ di tempo interpreta sempre lo stesso personaggio super buono: un padre di famiglia, tormentato per qualche ragione, con la faccia da cane bastonato corrucciata e lo sguardo bovino perso nel vuoto. Anche quando dovrebbe essere IN TEORIA un pericolosissimo super cattivo psicopatico, come Deadshot in Suicide Squad, lui la scena commovente mano nella mano con la figlioletta la pretende, in ogni caso.

Su Max Landis, invece, forse vale la pena di spendere qualche parola in più. Figlio d’arte di John Landis, Max è una persona abbastanza sgradevole. Salito alle luci della ribalta per Chronicle, l’immagine pubblica di Landis junior deve molto alle attività sul suo account twitter, che possono essere riassunte in due punti:

  1. dirci quanto fossero migliori le sue idee per ogni singolo blockbuster uscito in sala che sia stato oggetto di shitstorm per qualche ragione (vedi Ghostbusters);
  2. dissociarsi da un film che ha scritto e che è stato bocciato dalla critica, asserendo che i toni della sceneggiatura siano stati radicalmente cambiati, che abbiano stravolto i personaggi e che non vedremo mai il film che aveva in mente.

Il suo assordante silenzio che ha accompagnato la promozione e l’uscita di Bright (su Rotten Tomatoes ha una percentuale che si aggira attorno al 20%) aveva fatto presagire che il nostro stesse preparando la strategia difensiva contro le critiche. E infatti, 24 ore prima della pubblicazione su Netflix del film:

Non escludo a priori che Landis sia un genio incompreso schiaffeggiato dalla sfortuna da piccolo, vai a sapere. Però, e questo è un parere personale da prendere con le pinze, viste e considerate le sue cose arrivate sul grande schermo, viene da pensare che sia solo un incapace capriccioso. Per dire, se avessi scritto una patetica schifezza come American Ultra, mi sarei lasciato divorare dalla vergogna in un eremo isolato dal resto del mondo, piuttosto che pontificare sui social network.

Comunque sia, torniamo a noi. Bright è il primo tentativo di Netflix di produrre un blockbuster. È il progetto più costoso della piattaforma di streaming (il budget è di circa 90 milioni) ed è una ficata.

In un periodo storico in cui, se non riempi di backstory un film, la gente va sul web e blatera di buchi di sceneggiatura senza sapere di cosa stia parlando, Bright ti proietta, senza fare nessuno spiegone, in un contesto in cui urban fantasy significa che umani, orchi, fatine, draghi ed elfi convivono alla luce del sole (sfatando tutte quelle minchiate a là Underworld sulle società segrete), nel mondo di tutti i giorni, con i problemi di integrazione del caso. Gli elfi sono la boriosa classe dirigente che vive nei quartieri alti, gli umani sono i borghesi del caso e gli orchi sono l’equivalente degli afroamericani, quelli con cui la polizia di Los Angeles ci va giù pesante. La questione razziale viene risolta in un mix di incompatibilità di usi e costumi, discriminazione e ragioni religiose riassunte da un lapidario “gli orchi 2000 anni fa hanno fatto una scelta sbagliata e ne pagano le conseguenze”. 'Nuff said. Va detto che l’esposizione degli elementi della trama non è sempre cristallina, in special modo nel terzo atto, quando le cose si fanno più complicate, e che la sottigliezza delle metafore non è esattamente il punto forte del film. Tuttavia, se cercavate Kieslowski in Bright, forse dovreste un attimo rivedere le vostre priorità.

Consapevole del fatto che se stai raccontando una storia assurda devi crederci moltissimo, Ayer - sempre molto attento ai dettagli e nel perseguire un’idea precisa di cinema dall’inizio alla fine del film - decide di imprimere a Bright la direzione del buddy movie a volte scanzonato, altre (perlopiù) bello teso, nel quale gli elementi urban fantasy restano MacGuffin di contorno che danno un tono all’ambiente. Detto in parole povere: End of watch più Alien Nation. Magari a Max Landis darà fastidio vedere il suo universo narrativo (a onor del vero, mai troppo originale) ridotto a scenario di una crime story abbastanza canonica, ma pazienza. Chi si aspettava un world building più profondo rimarrà deluso, ma per quanto mi riguarda c’è ben poco di cui lamentarsi.

Al centro del film c’è il rapporto tra Daryl Ward, agente a cinque anni dalla pensione, e Nick Jakoby, il primo orco poliziotto della storia, rinnegato dai suoi simili e osteggiato dagli umani. Ward rientra in servizio dopo essere rimasto ferito durante una rapina; è diffidente nei confronti del suo partner perché lo accusa di aver lasciato scappare il suo aggressore, un orco, volontariamente, per ragioni di solidarietà nei confronti di un suo simile. Quando però alcuni colleghi decidono, contro il parere di Jakoby, di spartirsi il bottino di una retata - una situazione vista un milione di volte in serial tipo The Shield, però, essendo un fantasy, al posto della droga c’è una bacchetta magica, che detta così può sembrare una vaccata ma, fidatevi, ha un senso - Ward fa la cosa giusta e si ritrova appiedato insieme al collega in territorio ostile, con alle calcagna la polizia, alcuni gangster ispanici e una congrega di elfi incazzatissimi, intenzionati a riprendersi la suddetta bacchetta magica.

Saccheggiando lo stile underground dei suoi precedenti lavori e recuperando l’estetica caratteristica delle strade notturne di LA, illuminate dalle lampade al sodio ad alta pressione, Ayer imbastisce un poliziesco teso, appassionante e violento il giusto. Sopperendo alle mancanze e alla confusione della scrittura di Landis, che come già detto, nel terzo atto si accartoccia su se stessa, dimenticandosi, tra le altre cose, di caratterizzare personaggi secondari come l’elfa Tikka, il regista punta tutto sulla costruzione dell’amicizia tra i personaggi interpretati da Joel Edgerton, sepolto sotto chili di un buon trucco prostetico, e da un Will Smith in forma come non si vedeva da diverso tempo. Si, ha la scena da padre di famiglia mano nella mano con la figlioletta, come da contratto, però Ayer riesce a strappargli la possibilità di gonfiarlo di botte (letteralmente), di fargli dire parolacce e compiere omicidi a sangue freddo. Non è poco.

Perennemente in bilico tra il cult movie e la cazzatona imbarazzante, Bright la sfanga facendo affidamento sulla buona alchimia tra i protagonisti, regalando belle sparatorie sommate a momenti di genuina tensione e lasciando la voglia di tornare a esplorare questa bizzarra versione alternativa della nostra realtà. Voglio di nuovo bene ad Ayer, Will Smith non mi sta più così sui coglioni e vorrei comunque picchiare Max Landis, ma con fare bonario. È tipo un mezzo miracolo.

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