Jurassic Park: il kaiju eiga americano
Non so se c’eravate nel settembre del 1993, o se avevate l’età giusta per gustarvi appieno il momento. Jurassic Park fu un terremoto per grandi e piccini, ma solo questi ultimi furono investiti da un’onda anomala di merchandising paragonabile a quella di Star Wars. Era una dinomania totalizzante, avevamo di tutto: libri, album di figurine, fumetti, abbigliamento, gadget di dubbio gusto. Ma soprattutto giocattoli, una marea di giocattoli. Talmente tanti da riempire a fatica una cesta di vimini che, a trentun'anni suonati, ancora conservo gelosamente sul balcone di casa. Non è che ci gioco ancora, ci mancherebbe, però, pur avendo dato via praticamente tutti i pupazzi che hanno accompagnato la mia felicissima infanzia, non riesco a distaccarmi dai dinosauri. Sarà perché la mia passione per il cinema è iniziata con Jurassic Park, che è stato il primo film con attori in carne e ossa visto sul grande schermo, la prima VHS che mi è stata regalata e un sacco di altre prime cose che così su due piedi non mi vengono in mente, e inconsciamente spero di poter trasmettere un giorno questa passione alla prole, attraverso un rito di passaggio simile a quello che avviene sul finale di Toy Story 3.
Comunque sia, fomentato dalla visione di Jurassic Park, a sei anni avevo studiato l’enciclopedia a fascicoli della DeAgostini - quella che regalava in allegato pezzi dello scheletro di tirannosauro fosforescente - meglio di alcuni esami preparati all’università, ragion per cui la battuta del personaggio interpretato da Bryce Dallas Howard in Jurassic World («Dovresti sentire un bambino di quattro anni che dice: Archaeornithomimus») m’è subito parsa na stronzata. A bella! A sei anni Archaeornithomimus lo pronunciavo meglio di un professore di dizione, togliti 'sti tacchi, và. Avevo tutto, sapevo tutto, da grande volevo fare il paleontologo. Solo una cosa mi mancava: un altro film sui dinosauri. E dovetti aspettare quattro anni per averlo, quando ormai avevo dieci anni, erano già subentrati altri interessi e farsi regalare giocattoli iniziava ad essere poco cool e un filino imbarazzante.
Al netto di un’intensa e duratura, ma mai troppo remunerativa, infatuazione del cinema d’animazione per l’argomento, Hollywood non ha mai reagito con particolare prontezza di riflessi al successo interplanetario del franchise Jurassic Park, né nel 1993 né tantomeno nel 2015, quando è stato riportato in auge da Jurassic World, aggiungerei in maniera sfacciatamente irriguardosa nei confronti dei tanti che avevano messo in dubbio l’efficacia della relativa campagna marketing. L’industria cinematografica dell’intrattenimento non ha saputo rispondere a una domanda che chiedeva con insistenza “più denti”: uscirono tredici seguiti de Alla ricerca della valle incantata (tutti direct to video), We’re back! 4 dinosauri a New York (prodotto da Spielberg), Dinosauri della Disney, ma nessun film live action al di fuori del franchise della Universal.
Indagando sulle ragioni di questa indifferenza, emerge innanzitutto un fatto incontrovertibile e per certi versi banale, ovvero che all’argomento manca un fattore fondamentale perché si possa trasformare in una tendenza: la versatilità. Altri filoni, ad esempio il western o il supereroistico, permettono più ampi margini di manovra; si possono raccontare storie diverse, che hanno in comune giusto qualche punto di contatto, eppure restare nell’ambito del genere. Come fai a parlare di dinosauri senza fare una fotocopia del film di Spielberg? Voglio dire, in fondo anche Jurassic Park è una variazione del tema de Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle, più e più volte tradotto in pellicola: isola sperduta nell’oceano, dimenticata da Dio, nella quale spadroneggiano creature preistoriche per qualche ragione preservate dall’estinzione. Puoi giocare quanto vuoi sulle premesse, ma una volta che il regista più famoso del pianeta s’è già accaparrato l’ingegneria genetica e la clonazione, non ti resta veramente più un cazzo da dire che non sembri anacronistico o naïf.
Il mio io di sei anni, dunque, ha per molto tempo posto la domanda sbagliata a Hollywood. Non bisognava chiedere perché non stesse producendo più film sui dinosauri. Bisognava allontanarsi dal film d’avventura, dalle isole e dai parchi a tema e rivolgersi al più diretto cugino di Jurassic Park. Bisognava chiedere a Hollywood: «Perché non stai producendo più kaiju eiga?»
La risposta è in buona sostanza una, e ha un nome e un cognome: Roland Emmerich. In pieno delirio di onnipotenza dopo il successo di Independence day, il regista tedesco si fece convincere dal sodale produttore e sceneggiatore Dean Devlin a realizzare il primo Godzilla prodotto fuori dal Giappone. Il teaser trailer di Godzilla mostrava il gigante verde schiacciare con una certa indifferenza uno scheletro di tirannosauro in un museo.
Il filmato sembra suggerire «OK, il tirannosauro è molto figo e ancora sbalordisce i regazzini, ma è roba vecchia! Questa è la next big thing!» Emmerich cercò lo scontro frontale con Jurassic Park e, soprattutto, con il seguito The Lost World. Pensateci: non solo, abbandonato lo stile panzone e la posa eretta del mostro giapponese, Emmerich optò per una postura parallela al terreno e forme che evocavano il T-Rex, ma anche la scena del Madison Square Garden, con i cuccioli che sembrano velociraptor imbolsiti, ricorda la scena della cucina, per tempistiche e volontà di inserire una variabile horror slasher nell’equazione. Il problema è che Emmerich fallì su tutta la linea, scontentò i fan di Godzilla, non riuscì a soddisfare chi voleva semplicemente più denti e a fine corsa incassò in patria solo 196 milioni di dollari a fronte di una spesa di 140 milioni, allontanando di fatto per molto tempo la possibilità che a Hollywood venissero prodotti altri film di genere.
Ma quanto sono kaiju eiga i film della serie Jurassic Park? Apparentemente, il più kaiju eiga di tutti, prima del terzo episodio della nuova trilogia, che potrebbe virare con decisione verso questa direzione, è senza dubbio Il mondo perduto, non fosse altro perché mostra il T-Rex scorrazzare drogatissimo per le strade di San Diego. Ma forse, prima di rispondere alla domanda, bisogna chiarire innanzitutto in che modo la saga aderisca agli argomenti e alle caratteristiche del filone e come questo si sia evoluto nel tempo.
Il kaiju eiga non è una realtà immota e inflessibile: nati come risposta giapponese a King Kong e all’era atomica, i film sui mostri giganti hanno vissuto periodi in cui le creature erano viste come calamità causate dall’uomo stesso, altri in cui erano invece difensori dell’umanità, altri ancora nei quali interpretavano il ruolo di predatori indifferenti nei confronti della presenza umana, interessati soltanto a ribadire la propria supremazia su altre specie che minacciavano di spodestarli dalla cima della catena alimentare. Alcuni film usavano i mostri innanzitutto come specchio in cui vedere riflesse alcune storture della nostra indole o della nostra società, oppure come un modo fantasioso per esorcizzare le paure del popolo giapponese, sia quelle legate alle catastrofi naturali, che quelle figlie di Hiroshima e Nagasaki; altri si lasciavano andare più volentieri alla nuda e cruda resa dei conti tra bestioni incuranti della devastazione provocata dalle loro azioni.
Jurassic Park ha sempre condensato tutte le anime del filone kaiju eiga, tentando spesso di dare sostanza allo spettacolo attraverso argomenti che dalla bioetica sono via via migrati verso un ambientalismo che fa perno sulla dignità delle creature in quanto esseri viventi. Sarebbe una mistificazione della realtà, tuttavia, negare che il successo del primo film e dei suoi sequel dipenda soprattutto da come la messa in scena e gli effetti visivi pionieristici abbiano valorizzato la maestosità dei giganti preistorici, facendo leva sullo stupore e sul senso di pericolo che instillavano nello spettatore. Per dirla in parole povere, OK i pipponi sul diritto di giocare a fare Dio eccetera eccetera, però l’importante è che i dinosauri siano enormi, realizzati bene e filmati meglio, che si mangino un sacco di umani e che ogni tanto si prendano a morsi tra di loro.
Sul fronte più ludico del kaiju eiga, bisogna tener conto di tre fattori: danni contro le cose, danni contro le persone e danni contro altri dinosauri. Per quanto riguarda il primo, si tratta forse dell’aspetto meno rilevante della serie giurassica, un po’ perché su cinque film solo mezz’ora del secondo episodio ha un’ambientazione urbana, e per quanto la devastazione sulle isole raggiunga livelli soddisfacenti, il confronto con una sana distruzione di una metropoli è perso in partenza. Un po’ perché le dimensioni delle creature sono ragguardevoli, ma non tali da garantire crolli di palazzi: ci si limita a piccoli atti di vandalismo e di impalpabile disprezzo della proprietà altrui, come ammaccare un autobus a capocciate o sgretolare i muretti bordo piscina.
Gli altri due fattori meritano un approfondimento che permetta di stabilire quale dinosauro sia il vero protagonista della serie. Innanzitutto, l’analisi è pesantemente condizionata dal tipo di kaiju che preferite: io lo preferisco neutrale e dominante, prepotente a prescindere dalle dimensioni del proprio avversario. È per questo che non ho mai digerito il velociraptor e chi diceva che erano loro i veri protagonisti dei film.
Il velociraptor è meschino e approfittatore; la principale fonte di informazioni sul suo comportamento è Robert Muldoon, il guardiacaccia del parco, che ne parla come di un figlio di puttana troppo intelligente, dicendo che vorrebbe farlo estinguere di nuovo senza troppi patemi d’animo. La vittima preferita del velociraptor è l’esponente del basso proletariato cinematografico, il povero cristo che apre la paratia nel primo episodio, l’operaio che se ha mezza linea di dialogo sul copione è perlopiù composta di urla scomposte e gemiti di sofferenza. Nei cinque film, il raptor ha il bodycount più elevato: circa diciannove vittime umane. Ma escludendo il già citato Muldoon e il professor Arnold, interpretato da Samuel L. Jackson, l’85% delle sue vittime sono gruppi di sconosciuti, ovvero i cacciatori nell’erba alta de Il Mondo Perduto e i mercenari assoldati dalla inGen per cacciare l’Indominus Rex in Jurassic World. Cosa più importante, un mostro, per amarlo, bisogna poterlo ammirare, non solo temere: cosa vuoi ammirare, di un infido omicida che sembra volerti ammazzare solo per il gusto di farlo?
Oltretutto il velociraptor, dal terzo film in poi ha subito troppi cambiamenti, volti innanzitutto a depotenziarne la minaccia: messo da parte il killer spietato visto nel primo film, che uccideva col sorriso a settecentomila denti, il nostro si è messo a trattare con gli umani per riavere indietro le proprie uova, poi si è addirittura fatto addomesticare da uno di loro, manco fosse un tenero segugio. Ci vuole personalità, per emergere, e la personalità del raptor è quella dell’imbroglione che non vede l’ora di buttartelo nel sedere, ma che siccome si crede più intelligente di quello che è, alla fine è lui ad essere gabbato.
Nossignore, il vero, unico, inimitabile protagonista della serie è il Tirannosauro, un maestoso anarcoide con derive dittatoriali che fa il cazzo che vuole e uccide esseri viventi di ogni dimensione senza badare al politically correct. Il bodycount è più modesto del raptor, solo sette vittime umane, ma la varietà gioca a suo favore: buoni (Eddie Carr), cattivi (Peter Ludlow), avvocati (Gennaro), gente senza particolari orientamenti (il paleontologo Burke, il cacciatore Carter, l’equipaggio della SS Venture) e l’unica vittima sul continente del franchise, cioè il ragazzotto biondo con gli occhiali che prova a entrare in un locale di San Diego per salvarsi la pelle ne Il mondo perduto.
Dove però il T-Rex domina sul Velociraptor è nel campo dello showdown con altri dinosauri. A prescindere dal fatto che lo scontro tra le due specie segna un 2-0 per il Rex, quest’ultimo ha un difetto fisico, le ridicole braccia anteriori, che hanno avuto sicuramente un impatto significativo sulla sua psiche e forti ripercussioni sui suoi comportamenti. In preda a divoranti complessi di inferiorità, il tirannosauro sente il bisogno impellente di primeggiare, di ribadire la sua supremazia con una marcata teatralità. Se c’è nei paraggi una minaccia per gli esseri umani, il T-Rex interviene ed elimina fisicamente la minaccia, vantandosi col più sonoro dei ruggiti che le sue corde vocali possano produrre e fottendosene degli umani apparentemente grati per aver avuto salva la vita. Poco importa del luogo, dell’avversario o di come l’opinione pubblica possa percepire i suoi atteggiamenti, lui agisce e se ne frega delle conseguenze: questo l’ha portato, nella storia, a compiere gesti avventati (tipo eliminare un carnotauro nel bel mezzo di un eruzione vulcanica in Jurassic World: Il regno distrutto), crimini ritenuti deprecabili dagli spettatori (ha divorato un labrador ne Il mondo perduto) e bravate che si sono tradotte in disastrose debacle, come la sconfitta contro lo spinosauro nel vergognoso, propagandista e revisionista episodio conosciuto come Jurassic Park III.
Sono due i teropodi che hanno provato a spodestare il Tirannosauro dal suo trono, ovvero il già citato Spinosauro e l’ibrido Indominus Rex. Nel primo caso, il bodycount è fermo ai due mercenari assunti dai Kirby per la spedizione su Isla Sorna: troppo poco per poter essere preso sul serio. Nel secondo, l’ansia di prestazione dell’Indominus (assieme alla messa in scena loffia di Colin Trevorrow) si è tradotta in una minaccia artificiosa, quasi caricaturale; inoltre, alcune derive comportamentali vicine a quelle dei raptor e atteggiamenti populisti supportati da vuoti ruggiti a effetto e una vocazione per la distruzione fine a se stessa (sono tutti bravi a sterminare soldati senza nome e indifesi apatosauri) gli hanno scatenato contro le antipatie del grande pubblico.
Il ricorso all’intervento del T-Rex per togliere di mezzo l’Indominus ha rivelato, in ultima analisi, che nulla può scalfire il kaiju-factor del vero Re della saga.
Lunga vita al Tirannosauro.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Jurassic Outcast”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.