Racconti dall'ospizio #113: Dungeons of Daggorath e i GdR anni Ottanta
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Devo ammetterlo: senza nemmeno averlo letto, avevo catalogato Ready Player One come un libraccio per wanna-be nerd, per giunta millennial. Mi era già successo con Harry Potter (“Ah, ma sarà tipo una fiaba per bambini con i maghi al posto delle Barbie”) e, come per Harry Potter, è stata mia moglie a convincermi a leggerlo e costringermi a darmi dell’idiota arrogante. Sebbene sia lontano dalla perfezione e dalla coerenza dei romanzi della Rowling, Ready Player One mi è piaciuto parecchio: certo, l’autore soffre un po’ della smania di dimostrare che lui le cose da nerd le sa proprio tutte, ma in generale lo trovo un ottimo romanzo dedicato al mondo dei videogame degli anni Ottanta e Novanta, che cattura assai bene lo spirito dei videogiochi di quel periodo. Visto che io sono nato nell’AD 1972, e che ho iniziato a giocare grosso modo nel 1986, mi sono ritrovato perfettamente a mio agio nelle panoramiche nerd-videoludiche di cui il romanzo è praticamente intriso. Avendo iniziato coi Giochi di Ruolo alla fine degli anni Ottanta, però, non ho fatto in tempo a giocare al GdR di cui Ernest Cline parla più diffusamente, Dungeons of Daggorath.
Prima bella notizia: sullo store di Windows 10 c’è Dungeons of Daggorath, quindi lo potete scaricare gratuitamente per provarlo sul vostro PC, del resto gira praticamente su ogni coso dotato di un processore e Win 10, videocitofoni inclusi. Casomai, il problema è che il gioco è agli antipodi di quello che oggi consideriamo “user friendly”, e probabilmente schiatterete ottantadue volte prima di completare anche solo il dungeon iniziale (qua una lista dei comandi e qua una lista di consigli utili per non morire immediatamente).
Avessi giocato a Dungeons of Daggorath, probabilmente mi sarei dedicato a qualche altro genere di videogiochi: difficile dirlo a posteriori, dopo quarant'anni e otto generazioni di console, ma onestamente non credo sarei impazzito per quel gioco. Per fortuna, Io ho iniziato il mio viaggio nei GdR con due titoloni un po’ più maturi e amichevoli. Il primo è Phantasie III: ragazzi, che gioco. Classe 1987, pubblicato da SSI, quella che per me al tempo era “la software house dei GdR e degli strategici” (quindi sinonimo di “tutti i giochi che mi piacciono davvero), ti metteva al comando di un gruppo di sei avventurieri che dovevano far fuori Nikademus, che era un po’ il punto di unione tra Sauron e Voldermort, ma più incazzato.
Il gioco stesso era comunque cattivissimo. Già dal primo scontro era possibile avere la peggio contro i nemici “vaganti”: un colpo venuto particolarmente bene e – zak – al tuo chierico saltava il braccio destro e non poteva più lanciare incantesimi. Nelle prime ore di gioco, nessuno del tuo party era sufficientemente potente da curare ferite così gravi, quindi eri costretto a tornare alla base, scaricare il chierico monco e crearne uno nuovo. Stesso discorso se ti moriva un personaggio, magari un guerriero che era faticosamente e fortunosamente arrivato al livello 3. Se ci rimetteva le penne, potevi solo lasciare il cadavere nella discarica di morti e feriti che era il roster della creazione dei personaggi. E nel 2017 ci lamentiamo della Permadeath di Diablo o del fatto che in Kingdom Come: Deliverance devi trovare una pozione per salvare la partita. Lo trovate googlando “nome + abadonware”, anche se non so quanto sia legale o meno scaricarlo, e soprattutto dovrete impazzire un po’ per farlo partire sui PC moderni.
Il secondo gioco di ruolo in cui mi sono imbattuto sul mio Atari 800 (ricevuto usato dallo zio appassionato di tecnologia) è stato Questron II. Anche in questo caso, un gioco sterminato e immenso da esplorare. Sempre di SSI (ma c’era lo zampino di Westwood, quelli che poi svilupperanno Lands of Lore e Dune II), presentava il solito duello con il cattivone de’ cattivoni (qua rappresentato da un manipolo di maghi mezzi pazzi). Bei tempi, quelli: sulla scatola di Questron II c’era scritto “struttura del gioco e gameplay su licenza di Richard Garriott”, e in effetti a posteriori, è facile identificarlo come un Ultima III: Exodus reskinnato con una quest diversa.
Perché diciamocelo: la freccia del vero amore tra me e i videogiochi è arrivata con Ultima IV: Quest of the Avatar. Potrei scrivere venticinquemila caratteri di testo per dirvi perché Ultima IV sia un gioco che merita di essere provato anche oggi, ma penso che pochi di voi prenderanno realmente in considerazione anche solo l’idea di farlo. Ed è un peccato, perché su GOG lo scaricate senza spendere una lira (sì, “lira” perché parliamo di giochi anni Ottanta).
Un videogioco in cui l’eroe non deve far fuori il cattivone di turno o trovare un tesoro. Deve invece dimostrare di essere un eroe virtuoso: coraggio, onore, onestà vengono “misurate” dal motore di gioco, così come la capacità di essere umili e la compassione. Una missione epica, in cui bisogna trovare non solo gli oggetti per il viaggio finale verso una specie di inferno, ma anche i compagni di viaggio giusti, che però lasciano il nostro party se ci si dimostra poco onesti, poco valorosi o persino arroganti. Chiaro, parte dell’amore che provo per questo gioco è dato dal fatto che proprio grazie alla soluzione di Ultima IV ho iniziato a lavorare per lo Studio Vit e le riviste di videogiochi, ma vi garantisco che lo consideravo di livello mondiale prima di vedere il mio nome su Kappa.
Era un periodo floridissimo, per questo genere: i programmatori di Questron II (questo lo scoprii anni dopo, chiaramente) avevano giocato a uno dei primi Ultima e se ne erano talmente innamorati che decisero di sviluppare Questron e altri giochi simili. Al tempo era davvero possibile creare un gioco in pochi mesi e in “garage” con un amico o due: oggi è normale vedere “indie” che hanno una gestazione di anni e sono sviluppati da team di trenta person. Del resto, il sopra citato Kingdome Come: Deliverance, nato come progetto Kickstarter, è costato oltre cinque milioni di dollari.
Vi segnalo alcuni titoli, senza alcun ordine specifico, nel caso in cui vogliate esplorare un po’ di abandonware: Wizardry, con il suo setting tra sci-fi e fantasy; The Bard’s Tale, con quei dannati ninja da “disbelivare”; Dungeon Master e il suo difficilissimo seguito Chaos Strikes Back. Rogue, che ha dato il nome a quelli che oggi chiamiamo roguelike. Akalabeth, anche questo gratuito su GOG, che è il “papà” di Ultima, sviluppato sempre da Richard Garriott. Il semisconosciuto Demon’s Winter, a cui varrebbe la pena di giocare per l’end game onirico in cui si rivedono “pezzi” di livelli già attraversati; The Magic Candle, di una poesia inimmaginabile.
L’apice della produzione di GdR anni Ottanta e Novanta – sono monotono e fanboy su questo, lo so – sono stati gli Ultima. Ultima V: Warriors of Destiny tornava nello stesso reame di Britannia di Ultima IV, ma il protagonista – l’Avatar – doveva ritrovare il suo vecchio amico Lord British, sparito nel “mondo di sotto”. Alla fine del quarto episodio, infatti, l’ascensione dell’Avatar aveva prodotto una spaccatura nel continente e, come risultato, Lord British e i suoi nobili erano andati a esplorare il nuovo continente, finendo dispersi. Al posto di Lord British, si è insediato BlackThrone, che è un po’ il Trump della situazione e ha pensato bene di instaurare una dittatura per rendere “obbligatorie” le virtù: se dici una bugia, ti taglio la lingua. Ricorda qualcosa?
Il gioco era talmente “realistico” che le guardie ti seguivano per strade della città, spiandoti dalle finestre: oggi è scontato, nel 1988 era l’I.A. più figa mai vista. Poi c’è stato Ultima VI: The False Prophet, con la sua grafica VGA (finalmente!) a colori e la prospettiva isometrica. Qua bisognava “incontrarsi” con i Gargoyle, gli abitanti del “mondo di sotto”, e cercare di evitare un genocidio, accettando il “diverso” e le sue virtù. E poi Ultima VII: The Black Gate, che credo sia il gioco di ruolo semplicemente più bello a cui abbia mai giocato. L’Avatar ritorna a Britannia dopo duecento anni e scopre che una “fratellanza” sta raccogliendo adepti e si sta infiltrando un po’ ovunque. Un viaggio meraviglioso, che si conclude nella “part 2” ambientata in Serpent Isle, con un reame tutto nuovo da scoprire. Oltre a questi, Origin produsse due piccole gemme, che meriterebbero di essere provate da ogni giocatore di ruolo, designer e programmatore moderno: utilizzando il “motore” di Ultima VI, Worlds of Ultima: The Savage Empire porta in un mondo tra Africa e Sud America, e con i dinosauri. Ma è Ultima: Worlds of Adventure 2: Martian Dreams il vero capolavoro: finora ho cercato di evitare gli spoiler, ma mi concedo un'eccezione perché magari così vi convinco a provarlo. L’Avatar arriva su Marte con una astronave-cannone (tipo 1899, per intenderci, molto steam punk) dove trova personaggi storici come Tesla, Rasputin e Freud, e scopre che i marziani si sono rifugiati nei loro sogni per sopravvivere a un disastro di proporzioni bibliche: così dovete raggiungerli nella loro dimensione onirica per cercare di risolvere la situazione. È un gioco che meriterebbe di diventare romanzo, e che non ha molto da invidiare a Cronache Marziane di Ray Bradbury.
Entrambi questi giochi sono disponibili su GOG gratuitamente, ma tutti gli Ultima vengono venduti assieme a dieci dollari (una trentina se ci infilate anche i due Ultima Underworld): sono giochi molto difficili per gli standard attuali, in cui non c’è autosave e in molte occasioni bisogna mettersi con il foglio quadrettato a disegnare il dungeon o a segnarsi indizi. Ultima IV, per esempio, per finirlo senza soluzione richiede – a spanne – almeno settanta ore di gioco. Quindi, decidete voi se vale la pena di provarli, chiudendo non un occhio, ma tutti e due, sulla grafica antidiluviana, e scoprire questi mondi affascinanti e retrò.
Se non volete giocare a questi giochi (e non sapete cosa vi state perdendo) vi consiglio almeno la lettura di un libro gratuito, The CRPG Book Project, una specie di enciclopedia realizzata dai fan sui giochi di ruolo per computer. E, già che ci siamo, c'è anche Dungeons & Desktops, ma quello va acquistato.
Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.