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Racconti dall'ospizio #138: Quella volta che BLK Elmer mi attaccò un pippone filosofico durante una partitella a Cadillacs & Dinosaurs

Racconti dall'ospizio #138: Quella volta che BLK Elmer mi attaccò un pippone filosofico durante una partitella a Cadillacs & Dinosaurs

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Durante la gloriosa estate del 1993, le cose per me giravano davvero alla grande.

Tanto per cominciare, a scuola ero riuscito a spuntare un solo esame a settembre, e in virtù di un risultato tanto brillante, i miei mi avevano regalato un Amiga 600 munito di disco fisso con cui potevo finalmente spaparanzarmi sulle spiagge di Monkey Island 2: LeChuck's Revenge senza l’ansia di cambiare floppy (undici dischetti, signori miei). C’era sempre la faccenda che per giocare serenamente, tipo, l’ottanta per cento dei miei giochi ero obbligato a passare per il kickstart 1.3 dell’Amiga 500. Ma chissene, se poi tra quei giochi c’era BC-Kid, il port di Bonk's Adventure curato da Factor 5 che trasformava, almeno virtualmente, il computer Commodore in un quella cosa esotica, bellissima e mitologica che era il PC Engine.

In genere, sfruttavo l’Amiga soprattutto nella fase post prandiale e nel primo pomeriggio. Sì, perché poi, verso le quattro, venivano a citofonarmi gli amichetti con i motorini e si andava tutti alla sala giochi Politeama, che condivideva gli spazi con l’omonimo cinema. Lì, mentre l’anziano gestore sparava a nastro l’album Nord sud ovest est degli 883 (ne andavo pazzo), potevo dedicarmi con tutta calma alla mia fissazione videoludica del momento: Cadillacs & Dinosaurs. Vizio per vizio, la sala giochi apparteneva allo zio di un amico, e questo ci conferiva il lussuosissimo bonus “gettoni infiniti”. “O tempora, o mores”. O Morosini. Quello era, appunto, il cognome dello zio in questione, che con la sua generosità contribuì inconsapevolmente a fare di me la pippa nei giochini che sono oggi.

Stando a Google Street View, questa pizzeria dismessa è tutto ciò che resta della sala giochi Politeama. Era meglio se non guardavo.

Comunque, Cadillacs & Dinosaurs, dicevamo. O Cadillacs Kyouryuu Shin Seiki, come veniva chiamato in Giappone, era (è) un picchiaduro a scorrimento sviluppato da Capcom sull’onda del successo di Final Fight, che mescolava praticamente tutti i cliché di quella prima metà degli anni Novanta. C’erano le Cadillac Eldorado, uguali a quelle che sfrecciavano per le strade di Beverly Hills 90210, ma pesantemente truccate come i nostri motorini. C’erano i dinosauri, naturalmente, ché il 1993 era l’anno di Jurassic Park. In quest’ottica, il gioco era un po’ come il gelato fritto che servono nei ristoranti cinesi: se metti assieme due cose fighissime - siano fritture, gelati, macchinoni o dinosauri – difficilmente sbagli.

Ma Cadillacs & Dinosaurs parlava anche di ecologia e bracconaggio (il 1993 era pure l’anno di Free Willy); di pasticci genetici sospesi tra Alien e le Tartarughe Ninja: all’epoca non avevo approfondito, ma il gioco era il tie-in dell’omonimo fumetto post-apocalittico di Mark Schultz, originariamente pubblicato da Kitchen Sink Press tra il 1987 e il 1996, e noto anche come Xenozoic Tales. Tra l’altro, proprio ieri sera, scartabellando in rete, ho scoperto l’esistenza di una serie animata arrivata non si sa come dalle nostre parti (agevolo la sigla italiana).

Detto questo, non andavo ghiotto di Cadillacs & Dinosaurs solo per l’atmosfera, ma anche e soprattutto per la realizzazione e le meccaniche. Graficamente, contestualmente agli standard dell’epoca, il gioco mi pareva uno spettacolo: coloratissimo, con sprite massicci e una direzione artistica strappamutande che schierava dinosauri incazzosi, cibarie assortite, punk e scienziati mutaforma; cloni sputati di Blanka (giuro) che saltavano qua e là. E per finire, come ultimo boss, una versione distopica di John Hammond capace di trasformasi in una creatura a metà tra un dinosauro e uno xenomorfo.

Gli antropologi dell'internet stanno studiando la faccenda da anni.

A guardarla con gli occhi di oggi, una simile direzione artistica patisce un po’ l’effetto “attrazione dinosaura del Luna Park”, soprattutto per via di certi elementi posticci sparsi per gli scenari. Tuttavia, se parliamo di picchiaduro a scorrimento dell'âge d'or di Capcom (e non solo), per me Cadillacs & Dinosaurs resta il migliore, soprattutto a livello di ritmo.

Tra i quattro personaggi offerti dal roster - il fighetto medio, Jack Tenrec; la tipa, Hannah Dundee; la quota etnica, Mustapha Cairo; il cazzuto da sfondamento, Mess O'Bradovic - sceglievo sempre Mustapha, perché era il più versatile e acrobatico della mischia. Tra l’altro, parafrasando Berlusconi, somigliava moltissimo a un mio compagno di classe superlampadato, Pietro Bianchi (anche per via del cappelletto con la “P”).

Ora, non saprei dire con certezza se Cadillacs & Dinosaurs sia stato il primo picchiaduro a scorrimento firmato Capcom a introdurre la corsa; di sicuro non è stato il primo in senso assoluto, ché già in Golden Axe si sgambettava parecchio. Però, se lo chiedete a me, è stato quello che ha pucciato meglio lo scatto nel gameplay, incastrandolo perfettamente con tutto il set di mosse speciali a disposizione. Mosse che, per carità, erano pur sempre la versione for dummies delle analoghe di Street Fighter II; tuttavia, bastavano e avanzavano per alzare l’asticella rispetto a un Final Fight.

In generale, l’azione offerta da Cadillacs & Dinosaurs era meno massiccia rispetto a certi titoli concorrenti, ma molto più ricca e molto più veloce. Quando ero particolarmente in forma, lanciavo il mio Mustapha da una parte all’altra dello schermo facendogli tirare calci al volo, o rovesciati, o ruotandolo come un elicottero; ogni volta che potevo gli mettevo in mano una pistola, un fucile, un mitra e persino della dinamite. E lo facevo sfrecciare in auto come un pazzo fuoriso: Cadillacs & Dinosaurs sfoggia l’unica parentesi di guida che, a oggi, non è ancora riuscita a farmi incazzare.

La mia prima lezione di guida.

Tornando invece ai fatti del 1993, per me l’estate di quell’anno era stata anche quella della droga e dei primi cannini. Del resto, non vedo molte altre ragioni per giustificare certi eventi.

Un pomeriggio che ero appena uscito sconfitto da una gazzarra dinosaura, nella manciata di secondi concessi dal conto alla rovescia stavo decidendo se continuare a giocare, o se uscire a fumare una sigaretta. A un certo punto, una voce mi levò dall’imbambolamento: «Non hai mica un altro gettone?».

Mi misi a cercare con lo sguardo lo zarro di turno. Non c’era nessuno, e in effetti non era fischiata la parola “capo”. No, la voce incredibilmente veniva dal cabinato; a parlare era stato BLK Elmer, uno dei cattivi del gioco. Un tizio à la Bud Spencer col sigaro in bocca, la pelata e la barba; descritto da Wikipedia come un “ex giocatore di football di costituzione piuttosto corpulenta, abbastanza forte e veloce: attacca dando calci, pugni e spallate in corsa”.

Senza farmi prendere dal panico, decisi di stare al gioco (ahahah), e domandai: “Perché dovrei inserire un altro gettone e non andare, chessò, al cesso, di grazia?”

“Beh, ad esempio, perché così potrei continuare a esistere”, rispose il tizio, un po’ piccato.

“Scusa, ma a prescindere dal fatto che sto parlando con un personaggio - pure minore - di un coin-op, non potresti semplicemente aspettare che qualche altro stronzo si metta a giocare al posto mio? In fondo, di questi tempi per Cadillacs & Dinosaurs c’è la fila. Tra l’altro, mi pare di capire che tu e i tuoi compari vi rigeneriate a ogni partita. In effetti, anche diverse volte nel corso della stessa partita”.

“Che idiozia. Io non sono “gli altri”. Io sono io. Qua sopra compare un nome, BLK Elmer, ma considerato il contesto non è che sia proprio il mio nome. È più una classificazione sommaria. Diciamo che sono solo uno tra i tanti BLK Elmer. O almeno lo ero, prima che tu mi rendessi unico.”

Su quell’uscita, per poco non ci restai secco. “E in che modo ti avrei reso unico? Siamo forse in una parodia postmoderna de Il piccolo principe? Da quel che ricordo, ti ho solo preso un po’ a cazzotti prima di essere fatto fuori da uno sgherro dei tuoi”.

“Sì, esatto! Mi hai preso a cazzotti. E prendendomi a cazzotti mi hai definito. Mi hai reso unico. Come un bambino che la mattina di Natale scarta il suo giocattolo, uguale a mille altri, e lo rende speciale non appena inizia a giocarci, a pitturarlo; financo romperndolo o graffiandolo.”

Uno, nessuno e centomila BLK Elmer.

Ero scettico. “Ma tu sei già stato definito dagli sviluppatori del gioco, no? Sei BLK Elmer, giocatore di football eccetera eccetera. Hai un nome, una storia, un’identità, dei comportamenti predefiniti. Io non ho fatto un bel niente. Non sono mica un dio, o roba simile!”

“Ancora con questa storia? Il nome BLK Elmer per me significa poco. Come hai detto prima, di BLK Elmer ce ne sono a dozzine; prendi solo tutti quelli apparsi prima di me nel corso della tua partita, moltiplicali per il numero di partite praticate quotidianamente su questo coin-op e, di nuovo, per tutte le schede che girano per il mondo. Senza entrare nel ginepraio delle copie pirata, solo così ci saranno in giro, o ci saranno stati, fantastiliardi di BLK Elmer. Eppure, io sono io. A distinguermi è quella porzione rossa che hai pitturato a pugni sulla striscia gialla della mia vita. Per come al vedo io, ora quello è diventato il mio nome. Davanti alla potenza di quel simbolo, le parole BLK Elmer hanno perso la loro importanza. Tutti abbiamo bisogno di un nome, per uscire dalla massa ed esistere. Voglio dire, un sacco di tradizioni e religioni si basano su questa faccenda!”

“A parte che io sono ateo; ripeto, stavo cercando di farti fuori”, osservai in tutta onestà. Non volevo essere maleducato, ma ammetto che tutta la faccenda del segno e del nome mi pareva un sofismo.

“Bello, no? L'eroe che uccide è anche l'eroe che definisce la vita. Praticamente, sei un dio. Sai quante storie si potrebbero scrivere al riguardo, e quante ne hanno già scritte? È anche vero che come dio fai un po’ schifo. Ho visto come hai scroccato tutti quei gettoni, prima, quando sei entrato in sala. Non sei diventato forte grazie a chissà quale abilità, ma per privilegio...”

“Ma senti questo.”

“...eppure, mi hai creato. Certo, in termini assoluti avrei preferito emergere dal caos per mano di quel tizio laggiù; quello che tutte le volte finisce il gioco con un paio di gettoni al massimo. Lui ha dovuto sudare, per conquistare il suo status. Si è praticamente fatto dal niente, ha guadagnato un’abilità e probabilmente il suo carattere ne avrà tratto beneficio. Non è una fantastica metafora dei ruoli e dell'esistenza, questa?”

Giocare a fare Dio.

“Non saprei”, ammisi, “A parte che questa cosa dei privilegi mi sembra un filo moralista, penso ancora che il ragionamento faccia acqua da parecchie parti. Voglio dire, così come ti ho dato un nome – per usare parole tue - attraverso un cazzotto, avrei potuto inconsapevolmente cambiartelo con un altro colpo. O magari ti avrei ucciso, no? Senza contare che, a essere prosaici, tu manco esisti.”

“È la tragedia dei personaggi appariscenti ma deboli, come me. Non ci è dato evolvere. Possiamo solo esistere per una frazione di secondo. Siamo come insetti. Eppure, ha davvero importanza la durata di una vita? Non è sufficientemente significativa la vita in sé? È tutto relativo, no? Dal punti di vista linguistico, io esisto eccome. Proprio come esisti tu, che alla fine della fiera sei solo la versione giovane e immaginaria del tizio che sta scrivendo questo racconto da quattro soldi. Scommetto che alla tua età, il tizio, nemmeno fumava le sigarette, figuriamoci le canne. Né ha mai avuto questa conversazione con me, ti pare?

A volerla rileggere, tutta questa storia è un accumulo di sciatterie. Pensaci, l’”autore” non si è nemmeno preoccupato di dare una parvenza di verosimiglianza al nostro incontro. Il personaggio di un videogioco inizia a parlare, e tu non fai una piega? Siamo seri, su. Inoltre, ti pare credibile che un picchiatore barbuto grosso e cattivo che vive in un mondo infestato da dinosauri, discetti di filosofia spiccia? Ora, sono pronto a scommettere che il tizio che scrive si è incartato, che non sa come chiudere questo scarabocchio da corso di scrittura creativa. Vedrai che tra poco se ne uscirà con qualche mossa paracula e qualche citazione grossolana, tanti per darsi un tono. O con una GIF. Bah!”

“Già”, convenni, “Bah!”.

Bah!

Questo articolo fa parte della Cover Story “Jurassic Outcast”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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