L’illusione del controllo - Quando emozione fa rima con contraddizione
Ho iniziato a ripassare i momenti memorabili della mia carriera di giocatore e mi sono accorto che c’era un elemento ricorrente, difficile da spiegare, scaturito da un particolare senso di sorpresa. Particolare perché non l’ho mai associato a un’emozione immediatamente positiva, anzi, piuttosto è sempre stato vero il contrario: la sorpresa ha lasciato spazio a una sorta di distacco dall’esperienza eccitante di flow vissuta fino a quel momento.
Forse è capitato anche a te. Sto parlando di quelle situazioni di gioco in cui in cui ti fermi, appoggi il controller e pensi: “ma che ca**o…”
Per quanto possibile, cercherò di non fare spoiler. Tuttavia, se sei su queste pagine, sai già che gli spoiler sono roba da niubbi. A maggior ragione, se parliamo di giochi usciti ormai più di dieci anni fa. Se ti fossero interessati, il tempo per giocarli probabilmente l’avresti già trovato. Nel dubbio, questo è l’elenco delle opere citate, così fai ancora in tempo a rivolgere lo sguardo altrove se non vuoi rovinarti la sorpresa: Tomb Raider (Core Design, 1996), Metal Gear Solid (Konami, 1998), Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (Konami, 2002), Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots (Konami, 2008), Mass Effect 2 (Bioware, 2010), Spec Ops: The Line (Yager Development, 2012), The Last of Us (Naughty Dog, 2013), Rime (Tequila Works, 2017).
Guardando la lista, avrai notato che tutte le opere hanno almeno due cose in comune: sono avventure single player con telecamera in terza persona. Ma c’è un terzo elemento che le ha rese, per me, esperienze memorabili, proprio grazie a specifici momenti di gameplay, capaci di spiazzare completamente le mie aspettative. E, come dicevo poco sopra, prima di cogliere appieno la portata di ciò a cui avevo assistito, ho dovuto far pace con la frustrazione da mancata agentività. Ho dovuto cercare di giustificare tutte quelle scelte invisibili che avevano generato tali conseguenze, facendo emergere la voce dell’autore sopra la mia, semplice esecutore di un piano che, mi ero illuso, potesse appartenermi.
Partiamo da Tomb Raider: qui le conseguenze sono minime e siamo ancora nella prima metà di gioco. Arrivati al palazzo di Re Mida, troviamo finalmente la famigerata statua che dà nome al livello. L’unica cosa che possiamo fare è salire sulla mano e… sorpresa! Oh, no! Lara è diventata una statua d’oro. Mannaggia! Mi hanno fregato. Devo ricominciare il livello da capo.
Metal Gear Solid: come fa Psycho Mantis a sapere a cosa sto giocando sulla Play? Come fa a intercettare tutte le mie mosse, oddio, come diavolo posso togliermelo di torno… Basta, spengo tutto e ci riprovo domani! Caso vuole che, per giocare, ogni volta devo riattaccare la console al televisore. Metto il controller nella porta 2 e, magia, quel pazzo ha smesso di prevedere le mie intenzioni!
In Metal Gear Solid 2, Hideo Kojima è ancora più perfido: dove ha fatto sparire Solid Snake?! Chi è questo Raiden? Non voglio giocare con lui!
6 anni dopo, Guns of the Patriots: va che figo ‘sto Raiden… Quanta stima fratello. Adesso vi faccio tutti a fette! Ma perché dura così poco il suo cameo…?! Ne voglio ancora!!!
Mass Effect 2, terzo atto. Potenziare lo scafo della Normandy? Ha-ha! Chi vuoi che mi attacchi nello spazio: sono il re della galassia! Migliorare i cannoni? E perché? Ho un’ottima mira… Dai schiappe, venite con me a sconfiggere l’Oculus, che con gli altri membri dell’equipaggio ho instaurato una bella relazione e non voglio che muoiano in missione…
Mezz’ora più tardi: noooo, cos’è successo alla mia nave!!! E ai miei amici… Quante ore di discussioni inutili buttate per un istante di inconsapevole sciatteria.
Spec Ops: The Line: maledetti terroristi, ecco quello che vi meritate, fosforo bianco!
Due minuti dopo: oddio, cosa ho fatto?! I miei commilitoni erano d’accordo, però... Non c’erano alternative, vero? Dai, così non è giusto! Non giocherò mai più a uno sparatutto in vita mia…
The Last of Us. Vabbe’, il mio lavoro è finito. Ellie è finalmente al sicuro con le Luci e il suo sangue salverà il mondo. Ho solo bisogno di una birra fresca. Toh, guarda, ho di nuovo il controllo di Joel. Sta a vedere che Neil Druckmann non voleva parlare di pandemia ma dei limiti che un genitore è disposto a oltrepassare per il bene dei figli. Anche raccontare bugie, se necessario…
Rime: ma non stavo cercando mio padre? Ora posso rigiocare i singoli livelli. Che curioso: i loro nomi sono quelli delle fasi del lutto…
Ok, ti sei fatto l’idea. Ora veniamo al punto.
In Understanding Comics (1993), Scott McCloud sottolinea che, quando una persona guida un'auto, considera il veicolo come un'estensione del proprio corpo. Se qualcuno urta il veicolo da dietro, l’autista non esclama: "L'auto di quel tizio ha urtato la parte posteriore della mia vettura!" ma "Quell’idiota mi è venuto addosso!" Questo, spesso, accade anche nei giochi. Quando, giocando a Tomb Raider, Lara Croft precipita in un burrone, non penso "Dannazione, Lara è caduta" ma "Porcaccia la miseria, continuo a sfracellarmi nel vuoto!"
Quando giochiamo, non stiamo semplicemente seguendo l'eroe nel suo viaggio, siamo l'eroe di quel preciso viaggio. Sebbene il nostro avatar sia una sorta di mezzo, è molto più di un'auto. È un personaggio, con opinioni, desideri e intenzioni. E se questi tratti caratteriali o le azioni che deve compiere per proseguire nel gioco lo mettono in contrasto con i nostri desideri e le nostre intenzioni, si genera quella che alcuni chiamano dissonanza ludonarrativa (Clint Hocking, 2007): una contraddizione o disconnessione tra il giocatore, il design del gioco e gli elementi narrativi.
Solitamente, per mantenere l’armonia, ciò che vuole l'eroe e ciò che vuole il pubblico dovrebbero essere quanto più allineati. Giusto?
Sì, è corretto. Ma solo in parte. Solitamente è quello che vogliamo da un’opera di intrattenimento. Fortunatamente ci sono opere che, a conti fatti, si rivelano qualcosa di più di semplice intrattenimento.
Per quanto riguarda i videogiochi, questi hanno due sovrastrutture in atto nel momento in cui interagiamo: una ludica e una narrativa. il gameplay presenta ai giocatori degli incentivi (tradotti in forma di punteggio), mentre la narrazione presenta ai giocatori delle direttive (sotto forma di istruzioni più o meno esplicite). In altre parole, la dissonanza si verifica quando il nostro modello mentale del gioco come sistema smette di coincidere con il modello mentale del gioco come contenuto.
In Bioshock (Irrational Games, 2007 – anche questo l’hai già giocato, vero?), l’esempio citato da Hocking, la struttura ludica incentiva i giocatori a ottenere il potere dalle Sorelline. E fornisce una scelta stimolante: abbracciare il tema del gioco - l'oggettivismo, ognuno per sé - strappando loro il potere, uccidendole nel mentre, o seguire un approccio altruistico e salvare le Sorelline, rallentando però l’acquisizione di nuove skill. La struttura narrativa, tuttavia, non offre la stessa scelta: ci indirizza a rifiutare il potere aiutando Atlas, un rivoluzionario apparentemente nel giusto, a deporre Andrew Ryan, il presunto antagonista. Direttive e incentivi non sono allineati.
In Bioshock la dissonanza è palese, perché il momento della scelta è esplicito (compare un pulsante a chiederci se vogliamo salvare o sacrificare le sorelline). Negli esempi citati sopra, invece, la scelta è molto spesso invisibile, frutto preciso di un design che mira a ottenere la complicità del giocatore, per poi sovvertire questo rapporto, rivelando le drammatiche conseguenze delle nostre azioni.
Siccome il gioco a livello semiotico è un testo che esiste grazie a due autori - il game designer che crea le meccaniche e il contesto tramite il level design e il giocatore che mette in atto queste meccaniche, contestualizzandole – è necessario un rapporto di completa fiducia. Quando questa fiducia viene tradita, accadono cose imprevedibili, soprattutto quando ad essere messa in discussione è l’agentività, ovvero, come la definisce Thi Nguyen (Games: Agency As Art, 2020): la capacità di un individuo di scegliere azioni volontarie all'interno di un ambiente o di un sistema.
Uno degli errori più grossolani che un game designer può compiere è quello di “punire” il giocatore, ritardando o annullando gli incentivi anche se ha seguito correttamente le direttive; per esempio, quando al termine di un combattimento contro un boss, perdiamo tutte le skill virtuali accumulate fino a quel momento (anche le serie più blasonate sono cadute in questo errore, vedi il reboot di Tomb Raider… )
Per far sì che questo tradimento non generi una sfiducia che porti all’abbandono ma ci permetta di aprire gli occhi per riconsiderare l’intera esperienza, occorre grande maestria. Qualcosa che solo i game designer più illuminati hanno e che rappresenta, in un qualche modo, la loro cifra stilistica in quanto autori.
Perché, diciamocelo: una buona narrazione ha sempre bisogno di interruzioni. Questa è la prima regola dell’intrattenimento: i picchi di intensità sono percepiti come tali perché preceduti da momenti piatti. Altrimenti non saremmo in grado di distinguere ciò che merita attenzione da ciò che ci prepara a quel momento. È una specie di punteggiatura dell’intrattenimento. Senza, sarebbe come leggere un romanzo privo di maiuscole, virgole e punti: passeremmo più tempo a decodificare la struttura della frase che ad apprezzarne il contenuto.
Come diceva Claude Debussy (ma la citazione è stata attribuita anche a Mozart): “la musica è lo spazio tra le note”. Siamo in grado di apprezzare molto di più la bellezza quando questa è isolata, preceduta da un intervallo silenzioso, da uno spazio vuoto.
La dissonanza si spinge un passo oltre: creare il caos in un sistema altrimenti armonioso. Per dare vita a un'esperienza memorabile, l'armoniosa alternanza di vette di intensità crescente e momenti di silenzio non è sufficiente. Sono proprio quegli istanti in cui l'armonia si interrompe che rendono un’esperienza di gioco degna di essere raccontata. Se questo intervallo è spiacevole, doloroso, dissonante, la sensazione di sollievo che riceveremo dalla contemplazione risulterà amplificata.
Si tratta di quella sensazione che Frédéric Seraphine (Ludonarrative Dissonance: Is Storytelling About Reaching Harmony? 2016) chiama “emersione”, che è esattamente l’opposto dell’immersione. Rompendo la quarta parete, i momenti di dissonanza ci fanno riemergere dall’esperienza di gioco e ci offrono la possibilità di percepire strati di complessità anche in opere molto semplici (Rime, per l’appunto). L’importante è che il gioco, in quanto sistema basato su incentivi, rimanga coerente con il nostro modello mentale, mentre il contenuto va in una direzione che non ci saremmo mai aspettati.
La sorpresa, l'elemento di disturbo, l'incidente, l’ingiustizia, giustificano l'atto stesso di raccontare una storia. Ecco perché, quando usata con accortezza, la dissonanza ludonarrativa ci può portare a riflettere su cosa stiamo facendo nel gioco e magari anche a riconsiderare opinioni e comportamenti nella vita reale.
Questi momenti, rari e contradditori, mi hanno espulso dal flow del gameplay per offrirmi la possibilità di osservare da fuori le conseguenze delle mie azioni. Portandomi a sospendere l’interazione per interrogarmi sulle reali intenzioni dell’autore, sono diventati i ricordi di gioco più preziosi che ho da custodire e il motivo per cui, sebbene sia un utente sempre più intransigente e con meno tempo libero a disposizione, continuo a sottrarre risorse ad altre attività per impugnare un controller.
“Ma no, amore, dicevo così per dire… Adesso vado subito a mettere a posto la cucina, poi, quando le bimbe dormono, porto fuori la spazzatura. Tanto il controller è scarico, poi la console deve fare l’aggiornamento…”
E anche oggi, gioco domani.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai "Momenti memorabili", che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.