Benvenuti... al Jurassic Park!
Nel diciottesimo episodio della terza stagione di Dawson’s Creek, intitolato Fratelli di sangue (Neverland), all’interno di una capsula del tempo vengono rinvenute le matrici di alcuni biglietti di Jurassic Park. Questo non è che uno dei mille omaggi a Steven Spielberg infilati nella serie dallo showrunner Kevin Williamson, che - proprio come il suo personaggio, Dawson - nutre una profonda ammirazione per il regista di Cincinnati.
Ora, devo confessare che la faccenda della capsula del tempo non sono venuto a saperla da Wikipedia. In effetti, quando il suddetto episodio di Dawson’s Creek è stato passato per la prima volta in Italia (aprile 2001, esattamente un anno dopo la messa in onda negli Stati Uniti, come si usava all’epoca), probabilmente me lo stavo sorbendo nella gloria del prime time. Alla luce del giorno, ero solito ricoprire di merda la serie di Williamson, ma in realtà la seguivo avidamente e di nascosto, proprio come il tizio di Caro Diario con Beautiful. Un po’ perché avevo un debole per Michelle Williams e Katie Holmes, un po’ perché i teen drama mi hanno sempre tirato dentro; ho gusti da serva, non ci posso fare nulla.
Guilty pleasure a parte, all’epoca ero comunque tutto infighettato col cinema di Scorsese, di Coppola, di Allen e compagnia cantante, e l’idea che uno come Dawson Leery coltivasse velleità da cineasta su ispirazione di Spielberg mi sembrava, per fare il verso a Stanis La Rochelle, troppo americano.
Oggi, tutta l’idiozia di quel ragionamento mi pare lampante, ma quando tenevo i piedi a mollo nello spirito ribelle (…) dei miei vent’anni, sentivo il bisogno fortissimo di remare contro tutto ciò che avevo apprezzato durante l’infanzia e l’adolescenza. Compreso certo cinema di Spielberg; soprattutto Jurassic Park, che associavo a un franchise commerciale e fracassone pensato per spillare soldi ai ragazzini attraverso i gadget, nonché colpevole della mania per i dinosauri scoppiata qualche anno prima. Una mania che aveva invaso tutto: giocattoli, cartoni animati, snack; persino i documentari. Ricordo come fosse ieri il programma Il pianeta dei dinosauri, dove Piero Angela, da una fantascientifica postazione, si lanciava in spericolati collegamenti spaziotemporali col figlio Alberto e vari dinosauri in CG.
Ma all’università, quella era tutta acqua passata. E se proprio toccava chiacchierare di Spielberg - mon dieu - i film “giusti” erano altri, quelli seri: L'impero del sole, Il colore viola, Amistad. Al massimo si poteva discettare su Duel o Lo squalo, ma attraverso riletture esclusivamente metaforiche; o su Incontri ravvicinati del terzo tipo, ché Truffaut faceva da liberatutti.
Poi, naturalmente, c’era Schindler's List, il film che «Aveva dovuto girare Jurassic Park per pagarselo». Madonna, le cazzate che volavano per i corridoi di certe facoltà umanistiche; sarebbero dovuti volare più schiaffi, invece.
Grazie al cielo, qualche tempo dopo, tutta la mia spocchia da ventenne è andata giù nel buco del cesso con una musichetta deliziosa. Piano piano ho preso ad apprezzare di nuovo, anche se in mondo diverso, gran parte del cinema della mia infanzia, e pure i dinosauri.
Jurassic Park venne effettivamente girato a ridosso di Schindler’s List. Spielberg terminò le riprese del primo verso la fine del 1992, alle Hawaii, per poi schizzare in Europa alla volta del secondo (pare non volesse rinunciare alla luce invernale). Si dice che tra viaggi, editing notturni e stress vari, il regista in quel periodo arrivò al limite di un esaurimento nervoso. Per fortuna, anziché impazzire, il nostro finì per consegnare al mondo due film memorabili, di cui uno - Schindler’s List - assolutamente fuori scala, se lo chiedete a me.
Spesso si sente dire che un’opera riflette il suo autore e lo spirito dei tempi. In questo caso, senza voler tacere per sofismi le differenti vocazioni di Schidler’s List e Jurassic Park, è impossibile non prendere atto delle analogie che passano tra i due film.
In primo luogo - questa è facile - entrambi portano avanti la poetica classica di Spielberg, quella dell’uomo comune lanciato in circostanze eccezionali, eventualmente per redimere qualche problema affettivo. Così, mentre da un lato abbiamo l’Oskar Schindler di Liam Neeson, che progredendo nel suo cammino impara, tra le altre cose, il valore dell’amore e delle relazioni umane, dall’altro l’Alan Grant di Sam Neill, alla fine di Jurassic Park, riesce a scrollarsi di dosso la diffidenza (paura?) nei confronti della paternità. In entrambi i casi, queste evoluzioni non sono che i contenitori di un sottotesto ancora più forte: l’importanza assoluta della sopravvivenza.
«La vita vince sempre», osserva serafico il matematico Ian Malcolm (Jeff Goldblum) di fronte alle stolide certezze di John Hammond e del suo team di scienziati genetisti. E non potrebbe esserci pendant migliore per la commossa preghiera di Itzhak Stern (Ben Kingsley):
Sia nel parco costruito da Hammond che nel campo di concentramento di Płaszów presidiato da Amon Göth (Ralph Fiennes), tutti lottano per la sopravvivenza. Scienziati, visitatori; e i dinosauri, messi nell’impossibilità di riprodursi attraverso la sofisticazione.
Lottano per la sopravvivenza, naturalmente, i prigionieri del campo di concentramento; e da un certo punto in avanti anche lo stesso Schindler. Persino il crudele Amon non è che il frutto della capacità di persuasione e dalle lusinghe della macchina nazista. L’Hauptsturmführer è un uomo che ha perso la ragione, una bestia tenuta in cattività che vorrebbe andarsene altrove. Eppure, proprio attraverso due film così vicini all’abisso e alla morte, Spielberg celebra la vita e l’importanza della redenzione.
Quasi tutti i personaggi in scena (dinosauri compresi) sono vittime dell’ambizione megalomane di due uomini che hanno cercato di piegare la natura: il miliardario John Hammond e Adolf Hitler. Ed è proprio per la maniera in cui Spielberg si pone verso questo due figure che i film divergono nella sostanza.
Hitler è l’artista mancato. Un uomo senza talento che non ha la capacità di creare, ma solo quella di distruggere. A lui Spielberg non perdona niente. Addirittura, scegliendo di non rappresentarlo, gli nega deliberatamente ogni minima umanità. Lo identifica col Nazismo stesso, facendone un simbolo di male assoluto.
Il visionario costruttore del Jurassic Park, invece, è un sognatore; una figura “colpevole” ma positiva, e tutto sommato triste. Attraverso il racconto del circo delle pulci, Hammond confessa allo spettatore la sua natura di artista: non a caso, proprio come lo scienziato Claude Lacombe di Incontri ravvicinati del terzo tipo, a interpretarlo è un regista (in questo caso, Richard Attenborough).
Nella sua ricerca dell’immortalità attraverso l’arte e la rappresentazione, l’anziano miliardario si prende in carico la componente meta-cinematografica dell’opera, finendo col sovrapporsi allo stesso Spielberg. Entrambi hanno “riportato in vita i dinosauri” ed entrambi vengono sottoposti a giudizio per le proprie azioni. È come se il regista di Cincinnati, attraverso il dibattito sulla genetica, avesse già intuito quello sulla liceità della ricostruzione digitale di attori passati a miglior vita, oggi molto attuale, soprattutto dopo i nuovi Star Wars.
Pippe a parte, Jurassic Park è invecchiato piuttosto bene. La direzione degli attori e alcune scelte dialogiche appaiono un po’ datate, ma forse è solo la mia sensibilità personale che parla. Chiaro, il film non ha più il senso della meraviglia che aveva nel 1993. Allora, attraverso i dinosauri, il pubblico veniva messo davanti per la prima volta alla potenza creativa della computer grafica e a un immaginario che avrebbe influenzato gran parte del cinema per i vent’anni successivi.
Ma se a mostrare tutti i propri limiti sono soprattutto le sequenze in diurna, quelle in notturna funzionano ancora benone: penso all’entrata in scena del tirannosauro o alle battute di caccia dei velociraptor. Su tutto, a non essere invecchiata di un giorno è la regia pura.
Tutte le volte che Spielberg viene costretto a “barare”, a giocare con illuminazione e montaggio per far tornare i conti con la tecnologia del 1993, costruisce una tensione pazzesca. E ci riesce soprattutto nascondendo il suo punto, per poi giocarselo al momento giusto, come ai tempi del Lo squalo. Così, tra un omaggio a Hitchcock e uno a Kubrick (come sottolineato a suo tempo in questo pezzo qui), due maestri dell’immagine pura in movimento e dello sguardo, tutto ciò che venticinque anni fa veniva messo in secondo piano dai bestioni preistorici, oggi, rappresenta l’aspetto più solido e fresco del film.
E anche se questa non è una recensione - all’inizio doveva esserlo, ma poi mi si è imbizzarrito l’ambaradan - non posso fare a meno di tuonare un Frechete! In fondo, dovrò pur redimermi per tutte le minchiate che ho sparato ai tempi dell’università.
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