Outcazzari

Odio il lore

Ho ripetuto questa frase allo stremo, è diventato un meme. Probabilmente è un’esagerazione, forse ci sono dei casi specifici in cui me lo faccio andare bene, ma è più facile che no.

Il lore dovrebbe essere il diminutivo di folclore (e quindi maschile singolare) ma non è un sottinteso, è un’elisione voluta della radice popolare (appunto, folk) che il sapere che viene tramandato sotto questa etichetta tronca sia, appunto, fittizio, forviante.

Il folclore nella sua accezione culturale ha un valore essenziale nella costruzione dell’identità di un popolo. Può affondare le proprie radici nelle origini pagane, nel mito fondante di una città o di uno stato. Analizzando l’evoluzione semantica, racconta di stratificazioni culturali, dominazioni, conquiste, accadimenti storici che sfumano nel mito, nelle dicerie, nelle leggende popolari. Il folclore è un’aspetto del reale che brilla nella sua dimensione antropologica. Il folclore è cultura e identità.

Perdendo la radice folk- il lore ha perso la sua identità, diventando il tema centrale di acculturate esplorazioni ombelicali su una dimensione narrativa non presente all’interno dei media a cui ci riferiamo.

Mi spiego meglio.

Per me è veramente svilente quando l’attenzione su di un’opera passa dal suo svolgimento e dalla caratterizzazione dei personaggi, a una serie di elementi di contorno che servono a fare da sfondo, da world building. In un gioco, ad esempio, detesto l’attenzione prestata ad elementi di narrazione contestuale che diventano polarizzanti per il discorso. Nei fumetti qualche volta viene definita continuity: la speranza che tutte le trame che partono dagli anni Sessanta ad oggi abbiano una coerenza tale che migliaia di scrittori tengano le fila di tutto e che tutti i racconti di tutti i personaggi di tutte le serie siano coerenti a questo concetto astratto cristallino.

SPOILER: Non lo sono. Un personaggio può essere coerente solo nel momento in cui c’è correlazione con il “corpo” dell’autore che lo ha ideato. La narrativa seriale vive di simulacri, per i quali Batman è sempre Batman dal punto di vista iconografico e per certi caratteri dominanti, ma allo stesso tempo ogni Batman scritto da un autore diverso è, a tutti gli effetti, un Batman diverso. Fate pace con il concetto di canone, perché questo non esiste. Vi dirò di più: esistono Batman che sono Batman senza esserlo iconograficamente perché la sovrapponibilità semantica è inevitabile. Più facile da digerire: esistono fumetti degli X-Men i cui personaggi non sono proprio gli X-Men, il gruppo mutante della Marvel, ma fanno le stesse cose degli X-Men, e anche questi sono simulacri.

ESEMPIO: Tutto The Boys è realizzato con i simulacri sboccati dei supereroi di Marvel e DC.

La domanda che dovremmo porci è “Questi elementi a cui ci stiamo azzeccando sono davvero importanti per lo svolgimento della storia?” E molto spesso la risposta è no. Una buona opera è sempre autonoma, conclusa in sè, quando non ha bisogno di appigli esterni per funzionare.

Un’opera, per essere veramente buona, dovrebbe essere conclusa in se stessa. Tutto il resto è rumore semantico. Vale per i fumetti - dove specialmente da un certo momento in poi, gli archi narrativi di un autore facevano “storia a sé”, letteralmente -, per gli adattamenti e le trasposizioni dei libri (o fumetti) in alti media (film o serie), perché ogni volta quella è una storia “nuova” che adatta quei personaggi scorporandoli dal contesto di partenza. Anche qui, Batman non sarà mai “esattamente” il Batman che vediamo in quel numero specifico anche se iconograficamente gli è molto vicino, sarà sempre un’interpretazione diversa dello stesso personaggio. Così ad esempio Bond non è mai lo stesso Bond uscito dalla penna di Fleming, e via dicendo. Questo significa che non avete bisogno di nessun compendio bibliografico per capire un film o una serie. Tutto ciò che vi manda “fuori” dall’opera è rumore semantico.

Sapevo che mi sarei infervorato, quindi è il momento di un piccolo reset.

Respirate.

La validità dell’esistenza del folclore la dà il popolo che tramanda una credenza. Parlare di lore in un’opera di finzione significa dare più importanza agli elementi di sfondo (particolari) che non agli elementi strutturali (universali e astraibili dal racconto stesso).

Nei videogiochi spalanchiamo un’altra porta su un’armadio di verità scomode: i videogiochi sono scritti mediamente male. È davvero difficile o pesante sentir ciarlare personaggi dalle fattezze ridicole, superdeformati o cartooneschi come se stessero affrontando un tema esistenzialmente rilevante. Fra, ma tutto OK? sei un ammasso di poligoni!

Scherzi a parte. La bellezza dei mondi di gioco per come sono costruiti sta nel modo in cui il giocatore interagisce con essi. È una questione di immanenza: il mondo inizia e finisce con la mia mappa, con il mio livello, quello che c’è dopo, o che c’è stato prima, se non è un elemento interattivo, se non ha rilevanza per lo svolgimento della mia avventura, non è importante. È un elemento dello sfondo.

Se incontro un personaggio e questo mi aiuta, mi interessa sapere chi sia o perchè lo faccia? Se incontro un boss, è importante sapere come tirarlo giù o che da piccolo non è stato abbracciato abbastanza e questo la ha trasformato nell’incarnazione del male sulla terra?

La dimensione folclorica declinata nel videogioco dovrebbe essere strettamente legata alle esperienze maturate dai giocatori, che quindi sedimentandosi, stratificandosi, diventano leggenda. “Mi hanno detto che se strisci in quel passaggio ti si apre un’area segreta dove facendo un giro che non ti dico arrivi a recuperare la spada del figlio di Mazinga”, non “La fenditura nascosta nel fianco della montagna dei mammasantissimi fu aperta nel corso della battaglia dell’armageddon delle sfere celesti ancestrali quando il figlio di Mazinga combatté contro le legioni infernali e quindi scagliando la sua spada nel duello finale contro l’arcidiavolo gli trapassa il cuore e perde la spada e con essa la sua immortalità”. No. Cazzate. Fuffa. Fumo.

Doom è un gioco incredibile anche senza una linea di dialogo. Che vogliono i cattivi? Boh, sono diavoli, che possono mai volere? In una battuta, il nocciolo della questione: interpretazioni date da una definizione formale perfettamente compiuta dal punto di vista iconografico (Diavolo=Cattivo) e dalle sue interazioni (mi attacca=cattivo) e basta.

E questo senza voler andare a toccare il tema della asfissiante onnipresenza del lore dei giochi FromSoftware, dove non solo non sai chi è la gente che ti viene addosso e che vuole o perchè ce l’ha con te che adesso sei arrivato in questo posto che, insomma, fa abbastanza schifo, ma non sai nemmeno tu che stai facendo e perchè lo stai facendo se non indicazioni criptiche e nebulose che servono solamente a giustificare il tuo andare avanti ad ammazzare mostri che vogliono ammazzare te.

Torno accademico.

L’attenzione che prestiamo al lore è un prodotto della postmodernità, in pratica sublimiamo in mondi virtuali ipotetici una vita che segua le stesse logiche del mondo reale, ma non è così.

Fu Jean-Francois Lyotard che parlò del “declino delle grandi narrazioni” (in La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere), ovvero quei meccanismi di aggregazione sociale dell’epoca moderna sul piano filosofico (la concezione dell’essere umano e della religione), politico (l’ideologia dello Stato o della Rivoluzione) ed economico (la supremazia della produzione) che vengono meno con la postmodernità, che appunto è una messa in crisi (a volte un superamento) dei sistemi di cui sopra e del conseguente degrado della coesione sociale.

Venendo meno queste “grandi narrazioni”, l’essere umano ha colmato quel vuoto con una serie di “piccole narrazioni” che simulano gli effetti delle grandi narrazioni ma che non si estendono a tutto il genere umano ma solo ad una nicchia di utenti-fruitori di quella piccola narrazione specifica, che così confondono immanente (il mondo sensibile) e trascendente (il mondo che va oltre il sensibile), il lore con il folclore (in Otaku Ron di Masachi Osawa).

Il lore, in questa veste, è un banale accumulo di dati contenuti in uno spazio virtuale che non ha il peso di una stratificazione culturale nella quale attecchisce il “vero” folclore, che poi sarebbe la ricchezza antropologica comune a tutto il genere umano.

Il lore per me è un divertissement, un elemento di colore sullo sfondo. Non giocherei mai a qualcosa per il lore. Come non seguirei mai un fumetto per la continuity, o una serie che diventa bella poi. In Oppenheimer, ad esempio, la fisica è un elemento di sfondo che non è essenziale per lo svolgimento della trama. Io-spettatore non devo capire la fisica quantistica per godere del film, così come non devo sapere la storia di un boss per poterlo battere, o conoscere tutti i fumetti di Superman per vedere il nuovo film di Gunn.

Rifiutare il lore ci permette di rimettere in proporzione i veri caratteri dei medium dei quali fruiamo, è una presa di posizione netta che ci allontana da una dipendenza onniscientifica. Più esperienza della narrazione che conoscenza del contenuto minuto della stessa.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli orrori di provincia e al folk horror, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

Sono tutti giochi di lavorare!

Sono tutti giochi di lavorare!