Che You Have to Win the Game sia qualcosa di speciale lo si capisce subito, prima ancora di scaricarlo (no, non correte a chiamare la Guardia di Finanza: è un gioco totalmente gratuito). Dietro l'etichetta sotto la quale viene distribuito, ovvero Pirate Hearts, non si cela infatti uno sviluppatore solitario qualunque, bensì J. Kyle Pittman, regolarmente impiegato presso Gearbox Software. Il Pittman, però, è anche un fervente sostenitore della scena indie, e così ha preso da qualche anno a scrivere giochini nel tempo libero e a frequentare i più popolari siti dedicati a designer, programmatori, grafici e musici indipendenti. Non è un caso unico, quello di Pittman, ma non si tratta neanche di una situazione particolarmente frequente e vale quindi la pena di rimarcarla e ammantarla della giusta importanza.
Quanto You Have to Win the Game sia speciale, però, lo si comprende solamente dopo aver avviato la prima partita. Quel monitor che ruota dalla destra della finestra sino a posizionarsi al centro della stessa, con tanto di curvatura dello schermo e aloni da tubo catodico, lascia presagire due possibili situazioni, l'una all'opposto dell'altra. Una scelta del genere, del resto, può rivelarsi foriera di grandi cose se maneggiata da uno sviluppatore dotato della giusta perizia, o un autentico disastro se adottata soltanto per fare scena e mascherare carenze a livello di programmazione e design. Il caso di Pittman, fortunatamente, rientra nella prima categoria.
You Have to Win the Game è, nelle stesse parole del suo sviluppatore, una sorta di doppio omaggio. Strizza infatti un occhio ai giochi per PC degli anni '80, con le loro accecanti palette CGA e la bassissima fedeltà grafica, e l'altro a produzioni ben più moderne, perlomeno in termini di data di nascita, come VVVVVV. Lungi dall'essere soltanto un omaggio e niente più, però, You Have to Win the Game è anche un gran bel gioco di piattaforme ed esplorazione, proprio come se ne scrivevano tanto tempo fa. Lo si potrebbe classificare come un metroidvania, a voler esser tecnici, dato che subordina l'avanzamento nelle sezioni più avanzate al reperimento di potenziamenti per il personaggio principale, ma non è di questo genere di cavilli che mi voglio interessare in questa sede. Ciò che conta, invece, è il divertimento, e You Have to Win the Game ne regala un bel po'.
Il design delle stanze è complesso al punto giusto, i checkpoint sono distribuiti con la dovuta generosità, il sistema di comando funziona a dovere (si può giocare anche con un controller, tra l'altro) e l'atmosfera che si respira è quella dei bei tempi andati, riproposti da Pittman per filo e per segno sotto tutti i possibili punti di vista. Non mancano all'appello varietà e sorprese, elargite con un tempismo invidiabile, mentre è assente una funzione di stesura automatica della mappa delle ambientazioni visitate. Ma questa, e non me ne vogliano i giocatori più giovani, non è una carenza, bensì un altro punto di forza di You Have to Win the Game: negli anni '80 bisognava disegnarsele da soli, le mappe, utilizzando carta e penna. E per un gioco che vuole rendere omaggio a quei gloriosi anni, qualsiasi forma di automapping sarebbe stata una criminale concessione alla modernità.
Ho scaricato normalmente il gioco, che è gratuito, e l'ho provato per una giornata o giù di lì. Avrei voluto giocarlo ancora più a fondo, ma mi è piaciuto talmente tanto che mi è venuta subito voglia di scriverne.