Racconti dall'ospizio #179: Moonstone è il Dark Souls dei ricordi videoludici
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Il periodo amighista, per quanto mi riguarda, è stato forse quello più intenso, videoludicamente parlando, della mia vita. L’Amiga 500+ è stato il primo dispositivo tecnologico che mi è stato regalato (il Commodore 128 era già a casa quando sono nato), nel 1991, quando avevo sei anni, ed è lì che è cominciato un viaggio vorticoso, privo di differenziazione di generi, che ha costruito di fatto il mio gusto e cementato la mia passione. A partire dal primo trittico di titoli, ovvero Cisco Heat, The Simpsons: Bart vs. the Space Mutants e Kick Off 2 Europe, penso di aver provato centinaia di giochi, in un’abbuffata bulimica viziata, colpevolmente, dall’enorme quantità di copie pirata che circolavano alla luce del sole. Soprattutto nella prima parte della mia avventura con Amiga, non avevo praticamente idea dell’industria e del suo funzionamento, e i giochi si sceglievano la domenica mattina dal giornalaio, che vendeva i suoi bei dischetti con etichetta fotocopiata e, se andava bene, un foglio con un paio di righe di spiegazione. Si trattava di un rituale che vivevo con emozione, accompagnato da mio padre, anche lui appassionato come me, e banalmente vedevo che i dischetti nelle bustine di plastica costavano meno dei, pochissimi, che arrivavano sempre in edicola in edizione scatolata, perché parte di raccolte o edizioni particolari (come i primi che mi furono regalati). L’equazione era facile, dunque: costavano meno, ne potevo avere di più. Un paio di anni dopo, con la scoperta delle riviste e con una consapevolezza maggiore, avrei scoperto l’inghippo mortale, e ricordo di aver anche conservato ottantamila lire per andare a comprarmi un gioco originale appena uscito, con esito esilarante, ma questa è un’altra storia.
Questo slancio di nostalgia amighista serve invece a ricollegarmi al fatto che ero un bambino di sei/sette anni nel Paese delle Meraviglie e ricordo perfettamente che, nel rapsodico viaggio alla scoperta dei videogiochi, sono rimasto sotto alcuni titoli probabilmente inadatti alla mia età e alle mie capacità ma che, proprio per la loro inaccessibilità, ho finito per adorare. Due, in particolare, mi hanno stregato per l’immaginario e per le loro animazioni splendide: Wrath of the Demon e Moonstone: A Hard Days Knight. Bellissimi e difficilissimi, entrambi hanno contribuito a farmi innamorare del fantasy, ma soprattutto mi hanno insegnato il concetto di frustrazione.
Se il dannatissimo livello col cavallo del primo l’ho superato solo dopo innumerevoli tentativi nel corso del tempo, Moonstone: A Hard Days Knight (pubblicato nel 1991 da Mindscape) è rimasto fondamentalmente un tabù per tutta la mia infanzia, cosa che ne ha contribuito ad aumentarne la mistica. Ammetto di averlo recuperato, giocato e compreso soltanto in epoca relativamente recente, tramite emulazione, ma soprattutto di aver scoperto di non essere solo. A distanza di più di quindici anni, trovare la Moonstone Tavern, una community fatta proprio per persone come me, è stato bellissimo e proprio in questi giorni, la pagina Facebook ha condiviso un’immagine che, fondamentalmente, racconta una testimonianza simile alla mia.
Se vi sembra eccessivo tutto ciò, vi assicuro che no, non lo è. Moonstone è un gioco bellissimo e tremendo, sadico e punitivo. Un titolo che richiede la perfezione, ma soprattutto la comprensione di dinamiche di strategia e di world design assolutamente inedite per quei tempi. Pur partendo da un assunto quasi banale, ovvero la quest di quattro cavalieri alla ricerca di quattro manufatti per accedere alla Valle degli Dei, sconfiggere il guardiano e prendere il suo posto, Rob Anderson riuscì nell’impresa di creare un mash-up di generi impressionante, muovendosi con intelligenza tra i limiti hardware e le convenzioni dell’epoca per creare un RPG estremamente stratificato, che univa libera esplorazione, combattimenti action allo stato dell’arte, e tecnicamente anche multiplayer per quattro giocatori, visto che in realtà il gioco dava il meglio di sé con altri tre amici. Ammetto di non averci mai giocato per bene in compagnia, e i tentativi di avere la meglio su mostri e creature terribili con mio padre non furono particolarmente brillanti.
La spigolosità di Moonstone, però, oltre a contribuire al mito, non è immotivata, sebbene estremamente voluta dal suo creatore, è anche l’essenza della quest del cavaliere, che deve mostrarsi meritevole del suo posto tra le stelle. Per farlo, ha bisogno di conoscere il mondo che lo circonda e prepararsi a farlo. Il paragone con titoli come Dark Souls non è azzardato, tutto sommato, ma quello di Moonstone è un viaggio più organico, volto più alla scoperta delle leggi che regolano il suo mondo che al superamento dei propri limiti. La libertà di esplorazione, la necessità di alternare avventure (combattimenti) a ritorni in città per riorganizzarsi tenendo conto dei tempi, degli altri giocatori e di tanti piccoli dettagli, gli regalano un ritmo unico, ma soprattutto un senso di meraviglia in grado di fare da contraltare al suo essere estremamente punitivo. Dal mago folle che può tanto derubarti che regalarti preziosi bonus, all’esistenza del calendario delle fasi lunari che modifica gli equilibri di forza tra cavalieri e alcuni mostri, passando per la comparsa di un terribile quanto affascinante drago rosso, in grado di essere combattuto (a fatica) solo se si è in possesso di armi magiche, Moonstone è un prototipo di “open world dinamico” in un minuscolo spazio vitale, e ancora oggi è credibile, pur nel suo essere ovviamente superato e goffamente rigido.
Oltre all’impalcatura RPG dominante, fatta di equipaggiamenti e statistiche, l’altro aspetto che vale la pena di ricordare è il passaggio tra mappa del mondo e arene di combattimento, dove la trasformazione in hack’n’slash in arene limitate, curatissime, non si accontenta di uno spamming tremendo del tasto di fuoco ma richiede, ancora una volta, una profonda conoscenza dei nemici e del mondo circostante: nelle paludi bisogna stare attenti alle creature infami che ti tirano giù nel profondo, i lenti e pesanti nemici più grossi sono facili da evitare ma oneshottano che un piacere, e nonostante la disponibilità di un solo tasto di fuoco, il sistema di controllo permette di fare tante manovre diverse, in grado di restituire molto bene il feeling fisico del combattimento di spada.
Poi, certo, le animazioni della morte sono varie, cruenti e bellissime, ed è giusto così, visto che non è raro vederle. Probabilmente, il mio bias nei confronti di Moonstone: A Hard Days Knight è viziato dal fascino di averlo incontrato troppo presto e capito troppo tardi, e dunque, per me, resterà sempre un gioco forse più grande di quanto non sia. Eppure è impossibile non trovare tracce della pietra della luna in moltissimi giochi odierni. Quello che, paradossalmente, pone la creatura di Rob Anderson idealmente al di sopra di essi, sebbene i confronti tra epoche diverse siano inutili, sta nel bilanciamento perfetto degli elementi e nel senso di scoperta vero che accompagna ancora oggi ogni partita tra le mura di Waterdeep e Highwood, fino al cuore della Valley of Gods.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alaloth – Champions of The Four Kingdoms, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.