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Racconti dall'ospizio #213: Vanquish è buono qui, è buono qui

Racconti dall'ospizio #213: Vanquish è buono qui, è buono qui

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Questo è un Racconto dall’ospizio un po’ particolare, perché io a Vanquish ci ho giocato su PC grazie al port di metà 2017. Però, ci ho giocato ben conscio di essere davanti a un gioco del 2010, non acquistato all’epoca perché poco convinto dalla scarsa durata commisurata agli scarsi soldi in tasca. E poi, oh, dei Platinum avevo già Bayonetta, amore incondizionato che mi ha traghettato - rigiocata dopo rigiocata - fino a PlayStation 4

Scivola quel mech, ma che donna sei…

E il mio arrivo su Vanquish è stato altrettanto godurioso, nonostante alcune perplessità iniziali. Perché il giochillo di Mikami si presenta come un TPS con coperture, un po’ alla Uncharted o Gears Of War. Peccato che, giocandoci così, non solo si ha un percorso piuttosto accidentato, ma ci si gonfiano anche le gonadi in maniera imbarazzante.

Perché, baby, Vanquish è figlio di Devil May Cry e della sua filosofia di “stylish action game”. Insomma, in Vanquish si spara velocemente, ci si sposta come un fulmine e le coperture servono solo a prendere respiro per qualche istante, prima di lanciarsi a capofitto verso nuovi gruppi di nemici, con l’iconica “scivolata a base di propulsori” che funge tanto da manovra evasiva, che da approccio offensivo.

L’uso di strutture offensive è fondamentale… anche se non sempre godurioso.

Come un disco di air hockey, si scivola rapidamente da un punto all’altro delle arene, si prende la mira e si sfrutta anche una sorta di “Bullet time” mentre tutto esplode, il piombo e il laser fioccano da ogni parte e il moltiplicatore di punteggio si impenna… sempre se non si prende una bella esplosione in piena faccia e si è costretti a ripartire. Perché Vanquish, giocato al livello di difficoltà “giusto”, sapeva anche essere piuttosto bastardello, specie nelle fasi finali. Ma insomma, poco male: la duttilità del sistema di combattimento dona varietà a scontri altrimenti identici, stimolando la creatività del giocatore e invogliandolo - perché no - a nuovi approcci e strategie. Magari più rapide, perché anche il tempo influisce sull’high score, che è sempre tutto. TUTTO. Nella vita, proprio.

Ecco, forse qualche colore in più non avrebbe guastato..

Tra un boss mastodontico, mura da far saltare ed esplosioni deflagranti però, a dirla tutta, non è che lo sci-fi dipinto da Vanquish fosse chissà che splendore. Volutamente, è un po’ la rilettura da parte di un giapponese della sci-fi americana anni Novanta, quindi sì robottoni ma con un look un po’ muscolare alla Gears Of War e un pizzico di USA vs URSS che, insomma, lasciamo perdere. Davvero. Per fortuna che non si prendeva mai troppo sul serio, nonostante i drammoni recitati abbastanza male dai personaggi digitali.

Ma insomma, di certo non vuoi bene a Vanquish per il suo world building o per la parte narrativa: a volte, per godere, basta solo far esplodere cose in maniera stilosa. Chiedere a Michael Bay. E a Platinum Games.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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