Post mortem #22: L’importanza di chiamarsi Torbjörn
Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.
Mentre nell’aria risuonavano ancora le bestemmie di giopep e Kenobit per aver perso, causa sala già piena dieci minuti prima dell’inizio, il post mortem classico di Civilization, io e Nabu, zitti zitti, ci siamo piazzati in prima fila per un talk su Overwatch, il gioco/eroina che più ci sta togliendo il sonno e la voglia di vita sociale in queste fredde sere di inizio anno. Il titolo del talk è semplicemente “The art of Overwatch: evolving a legacy” e si prefigge di raccontare le modalità e i concetti che hanno guidato la progettazione artistica del gioco. Sul palco ci sono William Petras, rubicondo e geniale art director quarantenne forse ancora provato dai bagordi per la vittoria di Overwatch ai GDCA della sera prima, e Arnold Tsang, assistant art director e concept artist per Blizzard.
Petras inizia parlando di come Overwatch sia nato dalle ceneri dell’ambizioso progetto Titan, misterioso MMORPG in sviluppo per svariati anni presso la casa di Irvine, poi cancellato a causa dei risultati ottenuti non proprio in linea con gli elevati standard di qualità di Blizzard. Continua dicendo che la cancellazione aveva causato un’ondata di depressione a tutto il team di sviluppo, e che la nascita del nostro amato hero shooter era stata in gran parte guidata dalla voglia di riscatto sul precedente progetto fallito. L’idea alla base dello sviluppo, ossia quella di uno sparatutto con protagonisti personaggi, e non classi, fortemente caratterizzati e provenienti da nazioni e background molto differenti, è venuta da Jeff Kaplan, già responsabile del world design di World of Warcraft e, successivamente, divenuto il game director di Overwatch. Il buon Jeff, insomma, ha pensato a qualcosa di simile a quello che avviene per le super-squadre dell’universo Marvel: Avengers e X-Men. Si è subito inoltre deciso che il tutto sarebbe stato ambientato sulla nostra Terra, poiché di fatto Blizzard non l’aveva ancora utilizzata per nessuno dei suoi giochi. Per altro, a quanto pare, la stessa decisione era stata presa anche per il defunto progetto Titan.
Per il resto, Overwatch si è sviluppato attorno a quelli che sono stati identificati da Petras e Tsang come i cardini della filosofia Blizzard in fatto di progettazione artistica. A detta dei due oratori, infatti, sono sette i punti cardine che hanno guidato e guidano ogni progetto artistico della casa di Irvine:
- readability, ovvero la capacità di comunicare visivamente informazioni importanti;
- caratterizzazione profonda dei personaggi;
- proporzioni esagerate;
- mondi coinvolgenti (Petras ripete come un mantra la frase “Mondi pieni di speranza in cui tutti vorremmo vivere e combattere”);
- diversità di etnicità, cultura e religione, per far sentire tutti benvenuti;
- dinamicità nelle animazioni e nelle pose;
- artigianalità, ovvero restituire la sensazione di una cura del dettaglio propria di un lavoro artigianale e certosino.
Il duo ha poi continuato dicendo che, per prima cosa, hanno sviluppato eroi che appartenessero ad archetipi “classici” del mondo degli sparatutto: il cecchino, il medico, il fabbro/ingegnere, il soldato, il tizio col lanciarazzi e via andare. Ora, molti di voi sapranno già che Tracer è la mascotte del gioco e che gli autori hanno più volte dichiarato che è stata lei il primo personaggio ad essere sviluppato, anche perché a quanto pare il design della ragazza britannica che saltava nel tempo faceva già parte del progetto Titan. Sommo stupore quindi nello scoprire che, secondo gli art director, il personaggio più importante ai fini della progettazione grafica è stato invece il mio amato e tozzo Torbjörn, ingegnere svedese dalla voce roca e dalla panza piuttosto pronunciata. Torbjörn è stato infatti il primo personaggio il cui design è stato finalizzato già nelle fasi iniziali dello sviluppo, determinando di fatto la base su cui costruire l’aspetto di tutto il resto dell’allegra combriccola omicida. I designer hanno anche scherzato sul fatto che, in fondo, Blizzard ama molto progettare nani o simil tali, come dimostrano Muradin dell’universo Warcraft e Swann dell’universo Starcraft.
Insomma, niente male, per un personaggio che viene additato negativamente dai più per la sua semplicità di uso e inutilità nell’economia della partita e che inoltre si chiama come uno scaffale IKEA. Anche se a quanto pare l’origine del nome è semplicemente dovuta a un loro collega svedese in Blizzard.
Dopo questo dovuto tripudio di amore per l’ingegnere e fabbro svedese, Petras e Tsang sono passati a parlare del design di altri eroi, tra cui Winston, la cui genesi sembra non essere molto diversa dalle scenette degli sceneggiatori di Boris. “Ma se facessimo una scimmia scienziato della luna?” “GENIO!”. Per gli autori, Winston incarna appieno la visione del mondo di Overwatch, essendo un personaggio profondamente bizzarro e che porta avanti le potenzialità e le speranze di evoluzione della razza umana.
Prima di passare poi alla parte più tecnica dello speech, Petras e Tsang si sono anche lasciati andare a un po’ di sano fan service: “Siete chiusi con noi qua dentro da mezz’ora ma non sapete che lì fuori abbiamo annunciato il nostro nuovo eroe, Orisa. Ecco il video di presentazione!”. Tripudio generale, panico e mutandine sul palco. Ci hanno parlato di come Orisa sia il primo eroe africano per Overwatch e di come si siano ispirati a un design animalesco e ferino, facendo riferimento ai tratti di un elefante, un rinoceronte e un leone per creare questo centauro robot.
Per sbollire gli ormoni, il duo è poi passato a parlare del design delle mappe di gioco, dell’uso delle palette e dei colori per trasmettere atmosfere e sensazioni diverse al giocatore. Particolarmente interessanti le considerazioni sullo storytelling e su come utilizzare dettagli della mappa per raccontare piccole storie o inserire gli ambienti all’interno di una narrativa più grande. Per fare un esempio, hanno raccontato di come hanno deciso di aggiungere un piccolo epitaffio, con ritratto e candele, in un angolo della mappa di King’s Row, dedicato ad un personaggio del lore del gioco che muore in uno dei (bellissimi) corti animati associati a Overwatch. O di come solo pochi giorni prima della GDC abbiano cambiato la mappa di Numbani per integrare segni e tracce degli avvenimenti legati all’uscita del nuovo eroe.
Insomma, tanto amore (anche per Torbjörn), attenzione per i dettagli, diversità, dinamicità e tocchi personali hanno tutti contribuito a creare l’eccezionale mondo di Overwatch. Un mondo pieno di speranza, in cui tutti vorremmo vivere e combattere per la sua sopravvivenza.