Otogirisō, una vecchia villa europea persa nelle campagne giapponesi
Ho sempre adorato la premessa di questa storia, perché ci dà un’idea di quanto strani possano essere i videogiocatori, specialmente quelli giapponesi, specialmente quando sono anche mezzi genietti come Koichi Nakamura. Classe 1964, programmatore dei primi tre capitoli di Dragon Quest, il nostro Koichi esce con una ragazza, comincia a farle una testa così su quanto sono fantastici i videogiochi, e quella non ne vuol sapere perché ha decisamente altre passioni. Però, niente, Nakamura – che è giusto un po’ fissato –, la piglia per sfinimento e le dice che deve assolutamente provare un videogioco. Anzi, meglio: uno di quelli a cui lavora lui. Accompagna questa poveretta a casa e la mette davanti a Dragon Quest, lei cerca di raccapezzarsi tra HP, MP, combattimenti a turni e, a un certo punto, spossata, lo guarda e gli dice che non c’è nulla di divertente. Come se avesse ricevuto un ceffone in pieno viso, Nakamura incassa, con nonchalance. E da quel momento decide di cambiare le cose.
In effetti, con una mano sulla coscienza, Nakamura ammette che Dragon Quest, con il suo gergo complesso e le sue regole bislacche, non è molto adatto a un pubblico di non giocatori. E quindi decide che per il suo prossimo videogioco prenderà come riferimento proprio quella fetta di utenza che non è abituata a esperienze simili. In particolare si focalizza sui lettori, meglio se donne, una demografica di mercato perlopiù inesplorata alla fine degli anni ‘80, quando i videogiochi sono proprio lo specchio di quel collettivo otaku che adora i Dragon Quest. Così, Nakamura cerca un socio e trova tale Shukei Nagasaka, sceneggiatore televisivo, uno che ha scritto una marea di tokusatsu. Nakamura gli spiega l’idea: realizzare un libro interattivo, che non richieda nessuna capacità particolare per iniziare a videogiocare. Solo la voglia di seguire una storia e di prendere alcune decisioni.
Solo molto recentemente una traduzione amatoriale di Otogirisō lo ha reso giocabile anche a chi non conosce il giapponese.
Nakamura e Nagasaka cominciano a discutere diverse sceneggiature di ogni genere, e alla fine decidono di buttarsi sull’horror. Da una parte sono certi che una buona storia thriller possa essere capace di attrarre a sé frotte di lettori curiosi, e magari appassionati dell’occulto, categoria di persone che, in Giappone, non manca di certo. Siamo intorno al 1991, l’anno dell’uscita di Ring, di Koji Suzuki, che diventerà un fenomeno prima nazionale e poi mondiale in seguito all’uscita del film nel 1998. Dall’altra parte c’è anche il fatto che il mondo dei videogiochi non propone molte avventure da brividi. Proprio pochi anni prima di questa storia, arriva sul mercato Sweet Home, ovvero l’antenato di Resident Evil. Sweet Home è basato sull’omonimo film: una troupe televisiva entra in una vecchia casa in stile europeo per scoprire i segreti di un pittore scomparso. Un ottimo successo e, a posteriori, uno dei videogiochi più importanti della sua epoca.
In qualche modo, Sweet Home è un parente del videogioco di Nakamura: anche nella sua storia c’è una vecchia casa in stile europeo, semi sperduta. I due protagonisti ci finiscono dentro, loro malgrado, e diventano testimoni di una serie di orrori che non dimenticheranno facilmente. Persino Resident Evil, anni dopo, partirà da un incipit simile: quella villa in stile europeo che nasconde segreti inconfessabili. Davanti alla casa del videogioco di Nakamura c’è una distesa di fiori di San Giovanni, ovvero di iperico. In Giappone, l’iperico si chiama otogirisō (ed ecco un titolo perfetto per il gioco), e ha un significato ben chiaro: vendetta.
Sweet Home conteneva già molti degli elementi che avrebbero reso immortale Resident Evil.
Otogirisō è un videogioco strano, lo è oggi, figuratevi quando è uscito. Prima Nakamura pensa di realizzare a schermo solo una pagina ingiallita, sulla quale i videogiocatori possano leggere la storia, proprio come fosse un libro. Poi cambia idea, quando alcuni tester gli fanno notare che se quell’esperienza non aggiunge nulla alla pagina scritta, perché mai dovrebbero pagare dieci volte tanto il prezzo di un libro per farla?
Quindi decide di aggiungere gradualmente sempre più animazioni e una grafica che illustri meglio ciò che si sta leggendo. Inoltre pone particolare attenzione sul sonoro, tanto che ribattezza questo genere “sound novel”. L’altra particolarità di Otogirisō è che la narrazione è scomposta, randomica, in modo che possa offrire diverse storie, e spaventare anche con il suo senso di vaghezza, di indefinito. E in qualche modo giustificare quel prezzo ben più alto della letteratura canonica.
L’inquietante copertina di St. John's Wort - Il fiore della vendetta, il film tratto da Otogirisō.
Il videogioco diventa un piccolo fenomeno, un successo che cresce nel tempo. Diventa un film (uscito anche da noi con il titolo St. John's Wort - Il fiore della vendetta), si merita una riedizione su PlayStation, ed è il gioco di lancio della nuova azienda di Nakamura, ancora oggi molto attiva su produzioni simili: Chunsoft.
Oltre ad aver inventato una certa struttura a loop, che rende ogni iterazione della storia differente, Otogirisō è stato indicato nel tempo come una delle più grandi fonti d’ispirazione per titoli immortali come Silent Hill e Fatal Frame. In un’intervista con la rivista giapponese DenFamiNico Gamer, Keiichiro Toyama dichiarerà che nel suo Silent Hill voleva replicare proprio il senso di vaghezza che l’aveva terrorizzato giocando a Otogirisō. Bastavano pochi ingredienti suggestivi: una vecchia villa europea persa nel countryside giapponese, la provincia come luogo misterioso. Una distesa di fiori gialli come la vendetta.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli orrori di provincia e al folk horror, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.