Quel che mi ricordo dello Svilupparty 2017
Due mesi fa, giorno più giorno meno, sono andato allo Svilupparty 2017 di Bologna. Cos’è lo Svilupparty? Innanzitutto è una cosa seria, al contrario di questo reportage scanzonato che arriva con un ritardo quasi imbarazzante. Comunque, lo Svilupparty, arrivato quest’anno alla sua ottava edizione, è una sorta di Festa degli sviluppatori italiani, in cui piccoli team si incontrano, approcciandosi al pubblico e condividendo con loro i propri giochi, che nella maggior parte dei casi sono ancora in fase di sviluppo – da qui il titolo della manifestazione, credo. L’evento si è svolto, come ogni anno, all’Archivio videoludico della Cineteca di Bologna, ed è stato organizzato, come sempre, da Ivan Venturi, presidente dell’Associazione Svilupparty, che da un po’ di tempo a questa parte è diventata, fra le altre cose, una sorta di incubatrice per giovani team di sviluppo, a cui vengono date dritte, consigli e la possibilità di aprirsi al pubblico proprio in manifestazioni come quella in questione.
Questo è il mio primo anno allo Svilupparty, però più o meno tutti erano concordi nel dirmi che, di volta in volta, l’evento si ingrandisce e si apre a più gente, andando ad investire mercati prima insondati. Tipo, a ‘sto giro erano presenti dei giochi in VR. In ogni caso, lo Svilupparty è stato, come di consueto, spalmato in tre giornate, durante il weekend: nella prima ci sono state delle conferenze abbastanza tecniche, che ho prontamente schivato, mentre le restanti due sono state dedicate ai progetti degli sviluppatori, con i vari team che hanno esposto le proprie creature a pubblico e colleghi. In queste ultime due giornate ho avuto modo di provare l’ira di Dio. Un botto di roba, sul serio; talmente tanta che, toh, ad occhio e croce, se dovessi riassumerla per intero, potrebbe corrispondere circa ad almeno tre dei lunghissimi pezzi dell’ottimo Andrea Peduzzi. Dunque, di seguito troverete i titoli da me provati che, a mio insindacabile giudizio, sono stati non dico ‘più interessanti’, ma più meritevoli di discussione, ecco, almeno al loro stato attuale di sviluppo.
Edge Guardian
In realtà di questo curioso picchiaduro in VR ne aveva già parlato, proprio sulle pagine di Outcast, l’ottimo Fabio Bortolotti. In sostanza concordo col suo parere. È un arcade senza fronzoli, nel quale, impugnando due controlli che corrispondono, appunto, alle nostre mani, dobbiamo prendere a pugni un’orda di malvagi cubi, che cresceranno in quantità col passare dei minuti. Ho trovato Edge Guardian davvero carino, soprattutto per come riesce ad alternare le varie fasi di gioco; i nemici, infatti, possono essere sconfitti non solo corcandoli di mazzate, ma anche raccogliendoli da terra, una volta esanimi, e lanciandoli contro altri cubi in avvicinamento; o ancora, si possono creare delle barriere difensive che impediscono ai nemici di colpirci da un dato lato. Di contro, però, ci sono anche delle magagne di gioco, su tutte quella del filo al visore: un gioco del genere richiede continui giri a 360°; il rischio di rimanere attorcigliati come dei salami è dunque elevato. Insomma, pregi e difetti di cui ha parlato approfonditamente già Kenobit. Quindi perché aggiungere altro? Perché, come mi ha confermato Marco Giammetti, amico di Outcast oltre che una delle due menti dietro al gioco, Edge Guardian vedrà a breve una nuova versione che comporterà tantissimi cambiamenti. “Sarà quasi un altro gioco rispetto a quello che stai provando”, mi ha detto, o almeno questo mi pare di ricordare – sono andato allo Svilupparty quasi due mesi fa, ribadisco.
Mutant Chronicles: Lunar City - Code N
Questo è il gioco che più mi ha impressionato a livello visivo. Come forse i più attenti di voi avranno notato, si tratta di un tie-in del famoso gioco di ruolo da tavolo Mutant Chronicles. Sviluppato da un team di cinque trentenni, si tratta sostanzialmente di un classico punta e clicca, con tantissimi dialoghi, minigiochi, qualche scena di intermezzo, enigmi da risolvere e tutto quello che è collaterale al genere di riferimento. La peculiarità è appunto l’ambientazione, che si rifà ovviamente a quella del brand d’appartenenza, con fondali e personaggi a schermo che trasudano cyberpunk da tutti i pori, e che punta, in modo riuscito, sull’effetto nostalgia, grazie ad un approccio grafico che pesca a piene mani dai titoli del genere negli anni Novanta. Vedere per credere, Mutant Chronicles: Lunar City è una vera gioia per gli occhi. Certo, è da valutare poi la bontà del gioco in senso stretto – lo Svilupparty, con le sue postazioni anguste ed il continuo via vai di gente, non è esattamente il luogo ideale per provare una classica avventura grafica – però l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad una produzione che potrebbe realmente interessare una fetta di pubblico abbastanza ampia, cosa peraltro confermata dal Kickstarter che ha caratterizzato la fase successiva alla creazione del gioco, con ben 600mila dollari raccolti a fronte di un obiettivo iniziale di appena 60mila. Da valutare, però, sono le modalità di pubblicazione. Da quello che mi hanno detto i membri del team di sviluppo, il gioco verrà distribuito ad episodi, sul modello ormai tipico dei giochi Telltale, una volta che saranno meglio definite certe disposizioni date dalla società che attualmente gestisce il brand di Mutant Chronicles, e che non ha in alcuni modo partecipato, in termini economici, allo sviluppo.
Fantasy Network
Uno dei giochi più apprezzati dello Svilupparty. Fantasy Network è un gioco che si pone a metà fra un Wonder Boy, di cui riprende sia il combat system che quella caratteristica difficoltà bastarda, e un simulativo di vita (si possono definire così i giochi alla The Sims, sì?). Cerco di spiegarmi meglio: una volta iniziato il gioco, e creato il nostro avatar, verremo catapultati in questo mondo dai tratti idilliaci, che strizza l’occhio alle tipiche spiagge californiane e che si caratterizza per uno stile grafico cartonesco in verità non troppo riuscito. Qui avremo modo di parlare con i vari personaggi che troveremo lungo tutti gli angoli delle strade; chiacchierando, potremo aumentare la nostra popolarità sul social network del gioco (a cui si potrà accedere attraverso i menù). Popolarità che, tuttavia, aumenterà in modo esponenziale solo se posteremo foto, stati e link sul nostro profilo del fittizio Facebook di turno. Un circolo vizioso, insomma, che ci porterà a cosa? Ad esplorare il mondo che sta all’esterno della città; ed è qui che entrerà in gioco la componente action-rpg alla Wonder Boy. In questa fase, ci si parerà davanti un mondo fantasy, nel quale potremo raccogliere risorse che poi ci serviranno per accrescere la nostra popolarità che, aumentando, ci permetterà di spingerci oltre nell’esplorazione. Detta così sembra una cosa che torna, che ha il suo senso; e ce l’ha, per carità. Però l’impressione di essere troppo vincolati all’una o all’altra fase (posto che la parte da social network non l’ho trovata proprio fortissima, ecco) potrebbe disincentivare il giocatore dal proseguimento. Il gioco, sviluppato dai due tizi di Cast of the Seven Godsends (presente, peraltro, nello speciale sullo Svilupparty che due anni fa curò, proprio sulle pagine di Outcast, Filippo Mangiaracina), è ancora in pre-alpha, quindi “vai a sapere” quando uscirà qualcosa di più concreto e definito.
The Way of life
In realtà si tratta di un gioco abbastanza grosso, se rapportato agli altri titoli esposti allo Svilupparty, però credo che ne valga comunque la pena parlarne. Già pubblicato nella sua edizione definitiva, e rientrante nel progetto XBox ID, The Way of Life è all’apparenza un walking simulator con enigmi ambientali annessi. E fattualmente lo è pure, se non fosse che, a tutto ciò, aggiunge quel quid che riesce a rimettere in discussione tutto. Come si intuisce dal titolo, The Way of Life ci mette davanti alle scelte che spesso la vita ci pone: morte di un parente, depressione, nascita di un caro e così via. In totale, sono dieci le situazioni proposte dagli sviluppatori (un piccolo team formato da appena quattro persone, tutte under 30), che però vengono moltiplicate per tre dalla fruizione con cui possono essere giocate; in soldoni, ogni livello/situazione potrà essere vissuto da tre punti di vista: quello del bambino, quello dell’adulto e infine quello dell’anziano. A cambiare, però, non sarà solo la prospettiva di chi vive l’evento, ma anche le connotazioni che quest’ultimo potrà avere. Esempio: un bambino potrà vivere la morte andando in un parco giochi pullulato da animaletti da torturare fino allo sfinimento, mentre per un anziano sarà la scelta dell’eutanasia. A prescindere da tutto, il giocatore, sia esso bambino, anziano o adulto, avrà la possibilità di scegliere come proseguire. Potrà decidere di bruciare le formiche al parco con una lente di ingrandimento, oppure potrà scegliere di utilizzare quest’ultima per facilitare il percorso agli insetti, polverizzando gli ostacoli sul loro cammino. E per farlo, spesso, si ricorrerà sia a dei minigiochi, come nel caso del bambino al parco giochi, che a degli enigmi ambientali. Stilisticamente, poi, The Way of Life è un gran bel vedere. Essenziale, con quei poligoni volutamente squadrati, ma funzionale e, soprattutto, di buon impatto.
Slime ‘n’ Swipe
Un discreto spazio, a questo Svilupparty 2017, sono riusciti a ritagliarselo pure i giochi mobile. Nella fattispecie, quello che più mi ha stuzzicato è stato Slime ‘n’ Swipe, una cosetta piccola piccola ma comunque più che riuscita. Stringendo, si tratta di un endless survival dalle meccaniche piuttosto semplici: dopo il tutorial di rito, che ci guiderà in modo abbastanza agile durante i primi cinque livelli di gioco, ci troveremo, tenendo lo schermo obbligatoriamente in verticale, di fronte a uno sfondo in pixel art parecchio ispirato, dalla cui cima inizieranno a scendere degli slime di diversi colori. Il nostro compito sarà quello di scartare le creaturine del colore sbagliato, con uno swipe laterale, e invece di far scendere verso il basso quelli dalla cromatura esatta, che andranno a schiantarsi sul terreno, per essere poi raccolti in un’ampolla. Come faremo a capire qual è il colore che ci interessa? Semplice: ai lati dell’ampolla saranno presenti dei glifi, la cui cromatura varierà di livello in livello; in base al colore indicato dai glifi, avremo modo di capire quali sono gli slime che ci interessano, insomma.
Sembra abbastanza semplice, e lo è, come ho già ribadito, se non fosse che, come ogni endless survival che si rispetti, col proseguire ci saranno diversi elementi che andranno a metterci i bastoni fra le ruote. Nemici, soprattutto, che almeno in questa fase di sviluppo si distinguono in due categorie: una specie di alieno-sanguisuga che, se non verrà swipato via, ci prosciugherà tutto il liquido raccolto fino a quel momento nell’ampolla; l’altro nemico è la classica bomba, la quale, se toccherà il terreno per tre volte durante lo stesso livello, decreterà il game over, distruggendo l’ampolla. Ovviamente ci saranno anche dei perk, ottenibili al superamento di ogni livello, che consisteranno nell’acquisizione di slime speciali che ci torneranno utili con l’avanzare del gioco: selezionando il mago-slime, ad esempio, potremo rallentare il tempo di discesa degli slime, oppure selezionandone un altro, potremo trasformare tutti gli slime a schermo nel colore indicato dai glifi. Artisticamente il gioco è davvero carino, con quest’adorabile pixel art in 16-bit, degli sfondi acquarellosi davvero carucci e, soprattutto, delle belle musiche. L’uscita è prevista per l’autunno su sistemi Android e iOS, in due versioni: la prima gratuita, la seconda a pagamento ma senza pubblicità. Sono previste parecchie microtransazioni, cosa che odio; eppure, oh, una possibilità gliela darò più che volentieri.
God of Boxes
È l’altro gioco in VR, insieme a Edge Guardian, presente allo Svilupparty 2017 (in realtà c’era pure una tech demo sviluppata da una manciata di studenti del Politecnico di Milano, ma insomma). Si tratta di uno strategico molto carino, soprattutto nel concept: avete presente quei giganteschi tavoli, tipici di diverse serie TV americane, con l’erbetta sintetica, i mini-fiumiciattoli alimentati a motore e soprattutto i soldatini? Il reverendo Lovejoy, nei Simpson, ne aveva uno uguale, ma coi treni. Ecco, God of Boxes si rifà principalmente a queste sorta di simulazioni ludiche, togliendo però i treni e sostituendoli con riproduzioni di battaglie campali, e aggiungendoci poi una doppia dose di immersività, data dalla componente videoludica e, logicamente, dal visore VR. Ma qual è lo scopo del gioco? Una volta iniziata la partita, ci ritroveremo a guardare dall’alto questo lungo tavolo/pianura di gioco, che avrà diversi elementi peculiari: dei ponti, delle alberi e soprattutto una torre. Il nostro obiettivo sarà quello di difendere la torre. Per farlo, potremo disporre, a difesa di quest’ultima, delle scatole, presenti sul bordo del tavolo. Le scatole non dovranno però essere posizionate unicamente in corrispondenza della torre ma anche, che ne so, lungo il tragitto che precede la nostra postazione di difesa. Una volta terminata la fase di disposizione delle scatole, inizierà la seconda fase del gioco, quella cioè in cui assisteremo all’avanzata di un esercito di soldatini, il cui obiettivo sarà, va da sé, la distruzione della nostra torre; è dunque fondamentale una buona disposizione degli ostacoli da parare davanti al tragitto dell’esercito. Mettendo, ad esempio, un bel pugno di scatole su un ponte, gli complicheremo notevolmente la vita. Non solo: una volta che i soldatini inizieranno l’avanzata, potremo posizionarci in un determinato punto della mappa, scelto attraverso il posizionamento di un’apposita statuina situata vicino alle scatole, portandoci all’esatta altezza dei nemici. Da ‘dei’ attivi solo parzialmente, ci trasformeremo dunque in agenti diretti dell’azione, attaccando i soldati avversari con un martello che schianterà i malcapitati di turno.
God of Boxes non mi è dispiaciuto, però poteva piacermi di più. Mi spiego: il gioco, come si sarà capito, si articola in due fasi. La prima, quella più strategica, seppur non aggiunga chissà cosa ad un genere le cui basi sono ormai da tempo consolidate, è comunque gradevole: vuoi per l’ambientazione, vuoi per il senso di onnipotenza o per le musiche rilassanti di sottofondo. Ci sta. Bisogna prenderci un po’ la mano, ma una volta capito il concetto, il gioco fila. Il problema è durante la fase action, in cui ci troveremo a martellare come dei dannati, muovendo i controller in alto e in basso e senza avere grande cognizione di quello che ci sta succedendo attorno. Passatemi il gioco di parole, se vogliamo pure scontato, ma questa fase è un po’ una martellata sulle palle, ecco. Il passaggio, dall’alto alla corrispondenza dei soldatini, è innanzitutto fin troppo brusco, spiazzante. Poi, insomma, ‘sta roba dei martelli (dei cosoni lunghi e arancioni), cozza con tutto l’ambaradan, finemente rarefatto, presentato fino a poco prima. Comunque il tempo per lavorarci su c’è.
Fuzeboy
La storia di Fuzeboy è degna di essere raccontata. Il gioco è sviluppato da due persone, di cui una, il programmatore e compositore, presente allo Svilupparty; mi riferisco a Niccolò Favari, sviluppatore di trentatré anni (ma dall'aspetto ben più giovanile... glie ne avrei dati venticinque), presente all’evento assieme alla sua ragazza. La cosa che mi ha colpito, e che trascende dal videogioco, è che ogni volta che qualcuno faceva al suo fidanzato un complimento sul gioco, lei era lì ad inorgoglirsi incredibilmente; di contro, quando qualcuno muoveva magari una critica fondata, lei stava accanto per poggiargli una mano sulla spalla. Una cosa davvero tenera. Comunque, a parte questa roba totalmente fuori contesto, la storia di Fuzeboy è pure carina per com’è concepita. Lui, il programmatore, è un veterano dello sviluppo di software alla sua primissima esperienza nel mondo dei videogiochi; “Anzi, si può dire che ho iniziato a capire bene le vere basi dello sviluppo di un videogioco solo quando mi ci sono messo al lavoro, con Fuzeboy”, mi ha detto mentre provavo il gioco. Lui si è occupato della programmazione e delle musiche, mentre l’aspetto grafico, molto riuscito, e di game design è stato curato da Danis Darftey, un ragazzo ucraino conosciuto su Twitter. Innamorato dei suoi lavori da grafico, Niccolò gli ha proposto di lavorare assieme su un gioco e ne è nato Fuzeboy.
Ma cos’è Fuzeboy? Fondalmentalmente è un classico metroidvania, con tanti enigmi e delle fasi action ridotte all’indispensabile. Lì per lì, anche per stile, mi ha ricordato Teslagrad. Solo che in quest’ultimo c’era veramente poca azione (non che sia un male, eh) e i rimandi estetici si rifacevano più a dei cartoni animati di una cinquantina d’anni fa. Fuzeboy, invece, ha quest’estetica pacioccona decisamente più moderna e un approccio un pelino più action. Muovendoci lungo i livelli, tutti ottimamente realizzati sia in termini grafici che di level design, e impersonando questo bambino, potremo avanzare raccogliendo degli elementi di gioco e utilizzandoli contro i nemici, delle sorte di bombe, facendoli detonare e scoppiare; se, poi, l’esplosione avverrà in determinati punti della mappa, ecco lì che spunta il segreto. Un’altra cosa che mi ha colpito di Fuzeboy, a parte la riuscitissima estetica generale, è poi la coerenza fra i vari ambienti di gioco, diversi ma non troppo, seppur presenti in maniera minima. Il gioco, infatti, è ancora alle prime fasi di sviluppo; appena due mesi, secondo le parole dello sviluppatore – che è comunque tantissimo rispetto a quanto fatto vedere in questa fase d’anteprima. Infatti, al momento, sia lui che il grafico sembrano essere parecchio sotto con il lavoro, quindi è possibile che esca qualcosina su Steam entro fine anno. Ma insomma, sì, “vai a sapere”.
Riot: Civil Unrest
Si tratta di uno dei titoli più noti fra quelli disponibili sullo show floor dello Svilupparty 2017. Presente all’evento ormai da diverse edizioni, e sviluppato sotto la supervisione di Ivan Venturi, il gioco ha assistito a svariati slittamenti, dovuti principalmente ai continui avvicendamenti all’interno del team di sviluppo. In ogni caso, oggi sembra presentarsi in una sua veste quasi definitiva, tanto che potrebbe essere pubblicato entro la fine dell’anno. Riot: Civil Unrest è fondamentalmente un simulatore di rivolte: una volta sulla schermata iniziale, ci si pareranno di fronte diverse modalità di gioco. Su tutte, quella che per prima balza all’occhio riguarda la ricostruzione di famose rivolte avvenute in passato in tutto il mondo. Durante la mia prova, mi sono cimentato con quella dei No Tav in Val di Susa. Come del resto accade in ogni livello del gioco, anche in questo ho potuto scegliere se impersonare la polizia oppure i manifestanti. Ho provato entrambi e la differenza è, logicamente, netta. L’obiettivo di ogni fazione è avere la meglio sull’altra. La polizia potrà contare su lacrimogeni, SWAT e quant’altro, mentre i manifestanti su molotov, spranghe e altri oggetti di fortuna racimolati sul luogo. Il punto nodale, però, è la scelta d’approccio, totalmente discrezionale: a prescindere dalla nostra fazione, potremo infatti decidere se prevalere sugli avversari di turno con le maniere forti o meno.
Inoltre, aspetto da non dare per scontato, ogni rivolta presente all’interno del gioco è diversa; se, ad esempio, durante gli scontri dei No Tav in Val di Susa non sono stati utilizzati dei carri armati da parte della Polizia, allora non saranno presenti nemmeno nella sua ricostruzione videoludica. Ciò ha comportato un accurato studio da parte degli sviluppatori, che sono dovuti andare a spulciare ogni elemento che potesse risultare caratteristico, o in contraddizione, per ogni data rivolta. Grande spazio è però dedicato anche alla parte riguardante la costruzione, da parte degli utenti, delle proprie personalissime rivolte, con un editor completissimo che permetterà alla community di colmare eventuali rivolte non presenti all’interno del gioco originale. L’elemento più convincente di Riot è però l’aspetto estetico nella sua interezza: il gioco, infatti, mette in piedi una piacevolissima pixel art a 16-bit molto dettagliata. Senza scordare poi il comparto audio: indossando un buon paio di cuffie e facendo scoppiare un fumogeno, ad esempio, avremo la reale sensazione di essere lì, in mezzo alla folla, fra urla e silenzi assordanti. Speriamo dunque che questo 2017 sia l’anno buono per Riot.