A Ciambra: una storia di zingari a Gioia Tauro
Nonostante la sensazione di già visto, di reiterazione più o meno esasperata di quasi tutto quello che ci circonda, intorno a noi spesso ci sono storie e volti spesso ignorati. E con questo non intendo mica mettermi a pontificare sull’insensibilità dell’atomizzata società moderna, o altre affermazioni tipiche di un Diego Fusaro qualsiasi. No, il mio è piuttosto un mea culpa, un’ammissione di miopia sociale. Ne ho preso coscienza giusto qualche giorno fa, dopo essere uscito dalla proiezione di A Ciambra, film di Jonas Carpignano incentrato sulle vicende che vedono coinvolto un ragazzino appartenente alla comunità rom di Gioia Tauro. Ed io, cresciuto ad una manciata di chilometri dai luoghi in cui la pellicola è ambientata, di tutto ciò ne ero quasi ignaro. Sì, conoscevo le storie, anzi, certe leggende, ma insomma, alla Ciambra, porzione di Gioia Tauro da cui il film prende il nome e dove è stipata la comunità rom in questione, non ci avevo mica mai messo piede. E neanche potevo immaginare che, a due passi da casa mia, potessero vivere persone così distanti, ma allo stesso tempo tanto vicine a me. E Carpignano, a prescindere da tutto, è riuscito a cogliere tutto ciò, trascendendo l’impronta documentaristica che il film solo perifericamente ha, tentando invece di raccontare una storia di formazione classica ma che classica non è, per via di un’ambientazione disgraziata e stratificata.
In A Ciambra, come già anticipato, si snodano le vicende che vedono protagonista Pio Amato. È attraverso le sue azioni, i suoi gesti, le sue espressioni apparentemente uguali che ci giostriamo in quel microcosmo che è la Piana di Gioia Tauro. Una volta, un amico con qualche anno in più di me mi disse, parlando degli argomenti che solitamente popolano i giornali locali in Calabria, che “è ovvio che si parli sempre di ‘ammazzatine’ che altrove magari avrebbero poco spazio. Noi siamo la periferia dell’impero, del resto”. Non so se questa affermazione, citata andando a memoria, possa essere più o meno veritiera; non lo so nemmeno a distanza di anni. Però mi è tornata in mente, perché, se la provincia di Reggio Calabria è la periferia dell’impero, allora cos’è, la Ciambra di Gioia Tauro? Qualcosa di ancor più siderale, credo. Me ne sono reso conto guardando la prima metà del film, in cui vengono splendidamente sciorinati tutti gli aspetti che caratterizzano la quotidianità nella Ciambra. Una quotidianità in cui viene spacciato per ordinario ciò che ordinario, in realtà, non lo è affatto.
Carpignano esplora a fondo il vissuto della comunità che rappresenta, andando oltre i vari stereotipi di sorta e guidandoci, seguendo lo sguardo di Pio, nell’universo che popola la Ciambra di Gioia Tauro ed i suoi dintorni. Non ci sono solo i furti d’auto, gli allacci abusivi alla rete pubblica e il degrado urbano. C’è anche, ad esempio, la connivenza forzata con la ‘ndrangheta, di cui la comunità rom del posto prende le briciole, spartite tra l’altro con gli africani che popolano la tendopoli di San Ferdinando, da lì poco distante, in una guerra fra poveri che fa rabbrividire al solo pensiero e che, soprattutto, non è mai posta allo spettatore con un taglio didascalico. O ancora: c’è la polizia antagonista, vista come forza bruta che si abbatte sugli inermi, sparando sulla croce rossa; oppure la famiglia rom e la sua rappresentazione, veicolata attraverso una particolarissima manifestazione d'affetto ricca, peraltro, di uno slang tipicamente calabrese (a riprova del radicamento di fondo di questa comunità sul territorio). Gran parte di queste tematiche vengono presentate allo spettatore nella prima metà della pellicola, seguendo lo sguardo di un Pio fremente di crescere.
Il suo momento per mettersi direttamente in gioco, tuttavia, arriverà dopo non molto, quando una serie di eventi accelererà ulteriormente quello che dovrebbe invece essere il normale processo di crescita di un ragazzo di quattordici anni. È a questo punto che, per Pio, inizieranno ad aprirsi gli orizzonti, con una nuova figura da mentore, un nuovo Virgilio a stargli accanto: non più il fratello, severo e dai modi talmente rudi da ignorare volutamente la sua claustrofobia (in modo, tra l’altro, delle volte anche comico, per com’è reso a schermo), ma un ragazzone del Burkina Faso, uno di quei braccianti stagionali che, durante la stagione invernale, si spaccano la schiena per raccogliere una manciata di euro facendo la spola fra la tendopoli di San Ferdinando e gli aranceti carichi di Rosarno. È grazie a lui che Pio inizia a dare forma a dei sentimenti prima sopiti, che si manifestano solo per sussulti: cos’è giusto o cosa no, come comportarsi e come no. Una banalizzazione manichea di quello che è poi il variegato mondo moderno, non c’è dubbio, ma che, se inserita in questo contesto e soprattutto con i tempi filmici che Carpignano riesce a dettare, ottiene una linfa particolare, resa unica dal conflitto interiore che si instaura in Pio.
Tuttavia, se in fase descrittiva il film riesce a tirare fuori il meglio di sé, è proprio nell'ultima porzione che A Ciambra inizia a traballare. Innanzitutto per certe visioni oniriche, delle quali una fa da preambolo ad un finale che, sinceramente, non mi ha convinto; in secondo luogo per la troppa carne al fuoco messa dal regista. Nonostante i giornali nazionali ne parlino poco e sempre con lo stesso taglio, sulla punta dello Stivale c’è un mondo spesso ignorato dai grandi media, e a cui Carpignano dà giustamente spazio. Non con la giusta convinzione, però. La sensazione è di assistere sì ad un film con una variegata quantità di tematiche, che sono però buttate lì, non approfondite a dovere perché, di fondo, il tempo non c’era. Senza contare che il focus del film era pure un altro. Per farla breve, il regista non è forse riuscito a comprimere un mondo e una comunità nella quale, lo si percepisce chiaramente, è comunque entrato a livello sottocutaneo durante questi anni, capendone pregi e difetti e, soprattutto, diventandone amico.
Quest’ultimo aspetto è forse reso emblematico dal casting di A Ciambra, composto prevalentemente da attori non professionisti: Pio e la sua famiglia, gli Amato, sono persone vere, esistenti; non interpreti, ma diretti testimoni di una realtà che vivono sulla propria pelle – fantastici, a tal proposito, i titoli di coda, con lo schermo nero che si riempie progressivamente del nome ‘Amato’ in ogni suo angolo. L’estetica, peraltro, non è mai lasciata da parte durante i centoventi minuti di durata. Ogni scorcio, per quanto cupo o degradato possa essere, è reso meravigliosamente allo spettatore, con la macchina da presa che, in particolare, indugia sui volti dei protagonisti, i reali perni comunicativi di un film che è, a conti fatti, poco verbale; A Ciambra cerca di comunicare al pubblico attraverso le immagini e i visi, più che con le parole, sorprendendo a più riprese per la dolcezza inaspettata che riesce a dimostrare e attanagliando in una morsa interiore lo spettatore quando meno se l’aspetta.
Ho visto A Ciambra in anteprima, il 19 agosto, a Gioia Tauro, ed è stata un’esperienza a dir poco logorante. Non tanto per il film in sé, la cui bontà probabilmente si evince dalla recensione qui sopra, quanto per le condizioni in cui il pubblico è stato stipato: un cinema parecchio antiquato (l’unico nel raggio di oltre dieci chilometri), e la cui assenza di climatizzatori non ha fatto altro che acuire il caldo torrido tipico da queste parti durante la stagione estiva. Ne è valsa comunque la pena.