Una recensione un po’ disallineata su Una serie di sfortunati eventi
Vi capita che, iniziando una nuova serie TV, la noia sopraggiunga dopo poco? A me sì, e anche piuttosto di frequente. Quando succede, solitamente, stringo un po’ i denti, in base al mio tempo libero, e vado avanti fino a quando non inizio a compulsare lo smartphone dalla noia; ed è a quel punto che decido di abbandonare il telefilm di turno. Detto ciò, portare a termine per interno la visione di Una serie di sfortunati eventi, l’ultima serie TV prodotta da Netflix, è stato veramente arduo; il cellulare era sempre lì, a portata di mano sul comodino, pronto a distrarmi, visto che sì, una forte sensazione di noia ha permeato la mia visione dell’intera serie. A un certo punto l’ho addirittura spento, il telefono, proprio per forzarmi a concludere l’intera stagione. E ce l’ho fatta; con fatica, ma ce l’ho fatta. Grande esempio di professionalità, vero?
Va comunque detto che questa noia si è palesata in maniera scostante. Il primo episodio, ad esempio, è un gran bel vedere. In giro ho letto che la serie TV di Una serie di sfortunati eventi è una roba a metà fra i lavori di Wes Anderson e quelli di Tim Burton; non si tratta di un’affermazione che si discosta dalla realtà, e la prima puntata delle otto totali (anche se sarebbe più corretto parlare di quattro episodi divisi ciascuno in due parti da 45 minuti l’uno, più o meno), è in tal caso illuminante. Sarà riduttivo, ma per farla breve le inquadrature sempre alla ricerca della perfetta simmetria, la verbosità e quella forte inclinazione all’epico strizzano decisamente l’occhio soprattutto alla filmografia recente di Wes Anderson, mentre i colori spesso desaturati, la malinconia di fondo e la predisposizione alla fiaba spesso suona come un tributo, nemmeno troppo velato, ai lavori di Tim Burton. Tuttavia, non si tratta affatto di un impersonale minestrone di stili; piuttosto sarebbe più appropriato definire Una serie di sfortunati eventi come un melting pot dalla personalità propria, che si rifà ad alcuni grandi maestri del cinema moderno senza eccedere in alcun sciatto rifacimento.
Nonostante ciò, non sempre tutto funziona a dovere. Ad esempio, prima si diceva che il primo episodio fila liscio che è un piacere; ci vengono introdotti i personaggi principali, rappresentati dai tre orfani Baudelaire e dal Conte Olaf, e poi viene data un’infarinatura generale, che lascia intuire le peripezie a cui assisteremo. Nulla di eccezionale, sia chiaro, però si fa apprezzare; lo stile adottato, sia nell’estetica che nei dialoghi, funziona e convince, fra qualche basso e alcuni alti, almeno fino alla fine del secondo episodio. Da quel momento in poi si andrà incontro ad un appiattimento generale, da ricondursi sia alla sceneggiatura che alle scelte stilistiche. Le ambientazioni sono arzigogolate e nelle intenzioni pure ispirate, ma i protagonisti, sui quali torneremo più avanti, spesso si muovono al loro interno come se fossero dei corpi estranei, contaminando la maggior parte dei luoghi da loro visitati con loro essenza di anonime macchiette, figlia questa di una caratterizzazione superficiale e appena abbozzata. Per non parlare dei dialoghi: ridondanti, esasperanti, verbosi, inconcludenti e per certi versi anche banali, sempre alla ricerca della supercazzola apparentemente illuminante. Poi, non voglio fare spoiler, ma due parole sui twist che permettono ai tre orfani Baudelaire di togliere le castagne dal fuoco? Completamente insensati, senza né capo né coda, a metà fra la sopracitata supercazzola e una botta di culo caduta dal cielo.
E qui veniamo ai protagonisti: Violet, Klaus e Sunny, i tre orfani Baudelaire, appunto. Ora, non voglio passare per il purista di turno, soprattutto perché non ne avrei motivo, dato che non ho letto manco una pagina dei libri da cui la serie TV è ispirata, ma nel sottovalutato film del 2004, precedente trasposizione di Una serie di sfortunati eventi, ‘sti tre ragazzini c’avevano l’angoscia di vivere dentro – e a ragione, visto che avevano perso i genitori rispettivamente a quattordici anni, dodici e uno. Bastava dar loro uno sguardo per capire lo stato d’animo che li permeava, con quelle facce da funerale, quei musi lunghi portati avanti per tutta la durata della pellicola, che un po’ te li faceva pure stare antipatici; non avevano bisogno di alcun escamotage, di nessun vezzo per crearsi una propria personalità da vicolare con facilità al pubblico. Qui invece abbiamo ‘sti tre che sì, un po’ se la sentono che sono morti i genitori, ma al tempo stesso sono troppo impegnati nel darsi un tono, lucidandosi gli occhialetti o ripetendosi quanta invettiva scorre nelle loro vene.
Eppure da questo discorso mi sento di escludere Sunny, la neonata: adorabile, una vera patata di vita; mi ha quasi fatto venire voglia di fare un figlio. Non nello stesso modo in cui ci riescono le serie HBO ma ecco, ci siamo capiti. In realtà, da tale critica penso sia onesto tirar fuori anche il villain, nonché protagonista principale, cioè il Conte Olaf, interpretato da quel Neil Patrick Harris noto ai più per il ruolo di Barney in How I Met Your Mother; il confronto con Jim Carrey, precedente incarnazione cinematografica del personaggio in questione, era tosto, e inizialmente erano in tanti, fra cui il sottoscritto, a pensare che Harris ne sarebbe uscito con le ossa rotta. Invece il suo Conte Olaf regge eccome; una simpatica canaglia a cui non possiamo che affezionarci e che riesce a mangiare la scena anche quando non compare a schermo (demerito questo da ricondurre ai motivi sopra elencati).
Non mi va però di passare per quello che ci va troppo duro quasi solo per distaccarsi dal parere praticamente uniforme della critica. Una serie di sfortunati eventi è infatti una serie TV che comunque sfodera valori produttivi degni di nota, tentando di discostarsi dal mood generale imposto dalla miriade di prodotti che questo medium sta sfornando negli ultimi tempi, proponendo qualcosa di diverso e cercando di crearsi un pubblico da far crescere con essa. Purtroppo gli esiti non sono sempre positivi; c’è incostanza nella costruzione degli episodi, spesso caratterizzati da una ridondanza di parole che fanno perdere in un bicchiere d’acqua lo spettatore. Ad essere altalenante è soprattutto, al contrario di quanto accadeva nella versione cinematografia, il senso di avventura di cui dovrebbe essere pregno un prodotto come questo. È tautologico: Una serie di sfortunati eventi riguarda alcune persone che sono vittime passive di infauste circostanze. Eppure raramente si ha la sensazione che gli orfani Baudelaire siano padroni del proprio destino, quasi in balia di un mare (o lago) in tempesta che li risucchia e poi li sputa via, svuotati anche di quel senso di epos ereditato indirettamente dal già citato Wes Anderson. Peccato, io ci speravo.
Mi sono sparato tutte le otto puntate di Una serie di sfortunati eventi in circa quattro giorni, ovviamente su Netflix e in lingua originale. Due episodi a sera, penserete. E invece no. Una serie di fortunati eventi mi ha portato, negli ultimi giorni, ad essere invitato ad alcune feste e reunion alcolico/stupefacenti con vecchi amici che mi hanno impedito di fare questa logica divisione; e insomma, il mio fegato, dopo queste serate, è crollato alla visione di una roba del genere.