Racconti dall'ospizio #113: Metal Gear Solid V - Io e Big Boss ci siamo laureati insieme
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Si dice che la scrittura sia una sorta di magia che si instaura tra lo scrittore e il lettore. Solo quando la sintonia tra queste due figure è al massimo, si realizza quel miracolo che ti fa sentire completamente assorbito da ciò che stai leggendo. Con gli anni, ho imparato che si tratta di chimica: non c’entrano le doti letterarie dell’autore, e nemmeno la fantasia delle sue idee o le convinzioni politiche. È tutto legato alle sensazioni, alla sincerità, alla capacità di bucarti il petto. Per quel che mi riguarda, nei videogiochi, questa capacità ce l’ha Hideo Kojima.
Le sue storie sono spesso kitsch, esagerate, a volte palesemente ridicole, ma per me hanno sempre fatto centro. Mi sono sempre trovato in quella condizione di pura trance narrativa, trasportato dalla volontà dell’autore giapponese: ridevo quando voleva lui, piangevo quando lo diceva lui, ero incazzato nero quando dovevo arrabbiarmi. Si tratta di un’intesa talmente rara che mi capita sempre meno spesso con gli anni, man mano che digerisco generi, canovacci narrativi e archetipi di personaggi.
Eppure, per me, Metal Gear Solid è sempre stato perfetto al millimetro, mai fuori posto, sempre avanguardistico. Al punto che riuscivo a trovare spunti interessanti nei vecchi capitoli a distanza di anni. Quasi che Hideo li avesse ficcati lì per me. Per il me del futuro, almeno, come il Fabio che era tornato a Metal Gear Solid 2 dopo aver letto Orwell e che finalmente aveva realizzato cosa fosse la paura per il “pensiero unico”. O per il Fabio che era tornato a Metal Gear Solid 3 dopo aver letto Conrad e per quello che aveva riflettuto su Metal Gear Solid 4, su quel certo concetto di morte, a distanza di anni. E oltre ancora, perché tutto quel percorso iniziato nel 1998, quando frequentavo le scuole elementari, si sarebbe concluso dopo la mia laurea, con un esamone bello pesante di filosofia politica in tasca e Metal Gear Solid V che mi raccontava di Emile Cioran, di Hannah Arendt e di Nietzche.
In fin dei conti, per me, Metal Gear Solid V è stato tanto importante perché è coinciso con un periodo della mia vita in cui avvertivo il passaggio netto da una realtà semplice (quella accademica), fatta di sogni e speranze per il futuro, a una più complessa (l’oscuro mondo del lavoro). E il gioco stesso raccontava una transizione: quella di Big Boss da eroe a nemesi, da un uomo con un sogno e degli ideali a un orco che si trova a fare i conti con la rabbia, con la frustrazione, col dolore. Quel dolore fantasma che gli si legge in faccia prima di ogni missione, oltre le cicatrici, negli occhi vuoti: il dover combattere senza credere in niente, per il puro gusto di farlo. Perché è nella propria natura. “Col sangue dei nostri nemici abbiamo comprato il pane”, recita una delle tante cassette presenti nel gioco. Anche Big Boss passava dal mondo dei sogni alla terribile realtà. Nel suo curriculum, però, c’erano solo morti e distruzione.
Tendendo l’orecchio per ascoltare, Metal Gear Solid V raccontava un mucchio di storie interessanti. Quelle sulle idee di pace di uomini di guerra come Zero, Skull Face e lo stesso Big Boss, tre personalità forgiate sul campo di battaglia che inseguivano la fine del conflitto come Don Chisciotte coi suoi mulini al vento. C’era una vicenda forte di colonialismo (Cuore di tenebra), e anche di ossessione (Moby Dick) alla scoperta della natura violenta e selvaggia dell’essere umano (Il signore delle mosche). E poi c’era una splendida allegoria, quella della Torre di Babele, nascosta e strisciante, a indicare un certo tipo di colonialismo politico che passa attraverso la distruzione dell’identità linguistica.
Nonostante (e non a caso) sia ambientato nel 1984, Metal Gear Solid V è un gioco che parla del nostro mondo, parla di oggi, parla di come sia sottilissima la differenza tra bene e male di come spesso sia il più forte a decidere da che parte penda l’ago della bilancia (“Chi controlla l’informazione controlla il mondo”, diceva da qualche parte il buon Pynchon). Parla dell’importanza della comunicazione, e anche del pericolo che costituisce quando due presidenti si scambiano pizzicotti nucleari su Twitter. Parla di una lingua che divora le altre, di parole che perdono significato, di interi concetti che scompaiono in favore di uno slang più comodo. Parla di un uomini che hanno addestrato e a cui hanno distrutto il futuro. Voglio illudermi che, anche questa volta, Hideo stesse parlando a me, alla mia generazione.
Parla anche, tra le varie cose, di libertà creativa: quella che nel geniale plot twist ridefinisce vent’anni di storia e sembra un immenso dito medio al pubblico che aveva criticato la scelta di Raiden come protagonista di Metal Gear Solid 2. Guardando sfrecciare quel certo personaggio sulla sua moto, è impossibile non rivedere la partenza di Kojima, che probabilmente si è portato via la sua saga rivoluzionandola con un ultimo, ribelle, colpo di coda.
Ciao, Hideo, ci incontreremo là, dove non c’è tenebra.
Questo articolo fa parte della Cover Story "Metal Gear e Hideo Kojima", che potete trovare riassunta a questo indirizzo.