Paperback #30: Akira, il '68 cyberpunk di Ōtomo
Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.
Nel dicembre del 1982, circa sei mesi dopo l’uscita nelle sale di Blade Runner, Young Magazine iniziò la serializzazione di Akira. L’autore del manga, Katsuhiro Ōtomo, all’epoca non aveva ancora trent’anni.
Nato nella prefettura di Miyagi nel 1954, durante l’infanzia e l’adolescenza, il futuro mangaka e regista respira il complicato clima politico del Giappone del dopoguerra: ha appena sei anni quando la nazione viene scossa dai violenti tumulti legati al rinnovamento del trattato di mutua cooperazione e sicurezza con gli Stati Uniti, dieci all’alba della XVIII Olimpiade ospitata da Tokyo. Come tutti i ragazzini della sua età, Ōtomo è appassionato di shōnen, Super Robot 28 più di tutti. In questo manga disegnato da Mitsuteru Yokoyama e fortemente influenzato dalle esperienze di guerra del suo autore, c’è un ragazzino che ha la possibilità di controllare un gigantesco robot telecomandato lasciatogli dal padre.
Terminate le scuole superiori, il nostro si trasferisce a Tokyo, dove ingaggia i suoi primi lavori ed entra in contatto col clima di contestazione e controcultura di quegli anni. L’accelerazione mediatica del dopoguerra era riuscita a fare arrivare anche in Giappone l’ondata di protesta partita dalle università americane, a seguito della guerra in Vietnam e del persistere di discriminazioni razziali.
Ora, è possibile - ma tutt’altro che certo - che durante quel periodo Ōtomo abbia bazzicato gli stessi bar di un altro futuro autore vicino al movimento studentesco, Haruki Murakami, che si era trasferito a Tokyo nel ‘68 per studiare drammaturgia. Di contro, sarei pronto a scommettere che i due abbiano condiviso le medesime letture e visto gli stessi film americani in qualche fumoso cineforum: roba tipo Easy Rider, Gangster Story e Butch Cassidy.
Per molti giovani giapponesi di quegli anni, la cultura occidentale è una droga da spararsi dritta in vena: nel 1975, Murakami discute la sua tesi di laurea proprio sull’idea di viaggio nel cinema americano, probabilmente redatta mentre lavorava nel jazz bar che aveva aperto a Kokubunji assieme alla moglie, il “Peter cat".
Nel 1978 arriva il suo primo romanzo, Ascolta la canzone del vento, al quale seguono Il flipper del '73 e Nel segno della pecora. Quest’ultimo, pubblicato nel 1982 proprio come Akira, ha per protagonista un uomo sulla soglia dei trent’anni che ricorda con nostalgia gli anni della contestazione, attraverso passaggi che paiono usciti da un brano di Hunter Thompson.
Nel frattempo, Anche Ōtomo si era dato da fare. A metà degli anni Settanta aveva pubblicato una serie di storie brevi, tra le quali spicca Jûsei (adattamento di una novella di Mérimée, tanto per restare con la testa fuori dal Giappone), e Woogie Waltz 1, una raccolta che lo avvicina per la prima volta al tema del caos, delle droghe e della violenza urbana. Sempre in quegli anni, elabora per Young Comic un ciclo di parodie di fiabe e racconti classici occidentali, come Hänsel e Gretel, Il Mago di Oz o I tre porcellini, mentre da Domu - Sogni di bambini, del 1981, saltano fuori i poteri ESP che ritroveremo l’anno successivo in Akira.
Realizzato a partire dal 1982 e terminato solo nel 1990, Akira è sotto tutti gli aspetti un’operazione di nostalgismo ante-litteram, dal momento che Ōtomo vi fa convergere - trasferendoli nell’immaginaria Neo-Tokyo post apocalittica del 2019 - praticamente tutti i temi e i momenti chiave della sua infanzia e giovinezza.
Tornano le Olimpiadi, i disordini politici e il clima da dopoguerra. Tra le pagine del manga, serpeggiano il terrorismo degli anni Settanta e l’incidente del monte Asama, durante il quale cinque militanti del Rengo Sekigun, (l’Armata Rossa Giapponese) si barricarono con un ostaggio in un cottage della prefettura di Nagano. Il medesimo incidente, tra l’altro, è stato recentemente spolverato anche dal romanzo distopico 1Q84, di Murakami.
In Akira ci sono le bande di fuorilegge ma soprattutto le moto, che arrotolano energia cinetica per alimentare quella voglia di escapismo alla Easy Rider. E se i numeri di matricola dei ragazzini esper vanno dal 25 al 28 in omaggio a Super Robot 28, il protagonista Shōtarō Kaneda è addirittura omonimo di quello del manga di Yokoyama.
Ōtomo ha ammesso:
Tuttavia, diversamente dal suo quasi coetaneo Murakami, piuttosto che immergersi nella saudade, il mangaka preferisce di gran lunga infilare nostalgia e ricordi nel serbatoio di una motocicletta, per lanciarla a tutta manetta verso il futuro. Kaneda, Tetsuo, Kai e persino i Clown capitanati da Joker sono liberi nel senso più assoluto e totale del termine. A spingerli all’azione sono sentimenti puri e atavici come l’amore, l’amicizia o la rabbia. I ragazzini di Akira sono ribelli senza una causa ed è soltanto un caso se la loro strada, a un certo punto, si interseca con quella di idealisti organizzati come Kei e Ryu.
Arrivato a trent’anni, Ōtomo sembra condividere la tensione anarchica e la disillusione di John Milius: Akira è senz’altro un’opera politica ma non politicizzata, nella quale i rivoluzionari sono degli ingenui burattinati dal viscidi uomini di potere come Nezu.
Neo-Tokyo è totalmente allo sbando: gli adulti sono alla mercé di governi fantoccio, misticismi vari o dello scientismo, e l’unica scommessa praticabile sono i giovani. È vero, dai ragazzini possono nascere società distopiche come il Grande Impero di Tokyo, dove un Tetsuo ormai degenerato si serve di Akira per imbastire un regno del terrore à la William Golding, con tanto di schiave sessuali, violenze e droghe di ogni genere. Eppure, ci sono anche i tipi come Kaneda e Keisuke, che dopo molti sforzi riescono a trasformare la propria vocazione al caos in un potere di rinascita e ricostruzione.
L’anime, diversamente dal manga, ha meno tempo a disposizione per elaborare ed esprimere tutte queste tematiche e sceglie una strada diversa. Come ha dichiarato lo stesso Ōtomo in un’intervista (presente nel LaserDisc giapponese del film, pubblicato nel 1993), l’Akira cinematografico si concentra sull’azione d’insieme e vuole essere “un pezzo totale visivo”, mentre il fumetto dedica molto più spazio all’approfondimento del contesto, con le sue variabili sociopolitiche, e a quello dei vari personaggi. Si veda tutta la faccenda di Joker, che a un certo punto si allea con Kaneda e i suoi; oppure tutta la digressione sul regno del terrore di Tetsuo e la linea narrativa del personaggio di Kaori, più articolata e inquietante rispetto a quella del film.
In via di questa maggiore complessità, pare che Ōtomo abbia avuto qualche difficoltà a chiudere la storia. La leggenda vuole che il finale sia nato dopo una serata alcolica in compagnia di Alejandro Jodorowsky, altra figura artistica legata alla controcultura degli anni Sessanta e all’epoca pure lui alle prese con un fumetto fantascientifico disegnato da Moebius, L'Incal.
Ora, non so se l’aneddoto sia vero, soprattutto perché a raccontarlo è lo stesso Jodorowsky; ma spero tanto di sì.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.