Annabelle 3 è perfetto con questo caldo (fosse anche solo per l’aria condizionata in sala)
Prima di questo Annabelle 3, la mia esperienza con i film della serie The Conjuring si limitava al secondo capitolo regolare, The Conjuring - Il caso Enfield, che vidi in sala ai tempi dell’uscita e del quale conservo un ricordo vago, ma tutto sommato gradevole, soprattutto per la particolare cura infilata nella ricostruzione della Londra di borgata degli anni Settanta.
Tra l’altro, non so per quanti valga lo stesso o se è un autismo solo mio, ma quando un film se la gioca bene a livello di dettagli ambientali, mi arriva pure dal naso, oltre che dagli occhi. E durante la visione de Il caso Enfield, era tutto un tirar su odori di moquette e carta da parati ammuffita. Ecco, nonostante Annabelle 3 sia ambientato nel Connecticut e vesta una luce calda, funziona allo stesso modo, servendo una tra le Americhe anni Settanta più odorose e orecchiabili dai tempi di Tempesta di ghiaccio. Solo, con il 70% di sudore e presenze demoniache in più (giusto perché di là si intravedeva Nixon).
Ora, mi piacerebbe molto dissertare su come, in base alla mia esperienza, tra i marchi della serie ci siano le ambientazioni fascinose e dettagliate. Soltanto che la mia esperienza di due su sette non fa statistica, quindi ciccia, perché tra sequel, spin-off e sequel degli spin-off, la narrazione cinematografica (più o meno) ispirata alle (più o meno) avventure dei coniugi Ed e Lorraine Warren, demonologi e indagatori del paranormale, è cresciuta parecchio da quando James Wan ha dato il via alle danze nel 2013.
A questo giro, il cineasta australiano di origini malesi è presente in veste di produttore e sceneggiatore, mentre alla regia è stato chiamato Gary Dauberman, già in dimestichezza col ciclo e, tra le altre cose, coinvolto nel nuovo adattamento di IT, verso il quale Annabelle 3 mi è sembrato un po’ in debito. In primo luogo, c’è la costruzione dell’orrore, che prende le mosse dalla bambola assatanata e finisce per aprire le porte (letteralmente) a un bestiario che, filosoficamente, ricorda moltissimo le incarnazioni del clown.
Poi, c’è lo stesso gusto nel trasfigurare un ambiente famigliare come le mura di casa in una trappola mortale, che nasconde insidie dietro - e sotto, e sopra – a ogni pertugio. E capisco che ‘sta roba non nasce con IT; però, come dire, mi è arrivata in maniera simile. O magari sovrainterpreto io, boh.
Va anche detto che, per quanto tenda a prendersi sul serio, Dauberman non si porta a casa la partita con Muschietti e tira fuori un film nella media, che diverte ma non inventa nulla. A cominciare dalle premesse, che scopano via i genitori (Vera Farmiga e Patrick Wilson compaiono solo in un paio di scene) per lasciare casa libera alla figlioletta Judy (Mckenna Grace, la più brava di tutti) e, soprattutto, alla classica formula “babysitter coscienziosa + amichetta maliziosa + pretendente goffo”.
Il problema è che a casa Warren non ci sono Ferrari da scassare o mobili costosi da ribaltare, ma piuttosto un sacco di reliquie infestate che sarebbe meglio lasciare in pace ma che, ovviamente, finiscono per scombinare la serata di adolescenti e marmocchi, come nel più classico degli horror di fine anni Settanta.
Probabile che Annabelle 3, se siete avvezzi al genere, lo abbiate già visto mille altre volte, pure meglio. Eppure, nonostante sembri sempre sull’orlo di scivolare nell’episodio di Halloween di That '70s Show, alla fine regge. È divertente e sa dove posizionare le trappole per far saltare lo spettatore. In più, mette sul fuoco due o tre tematiche da coming of age, oltre al tema del bullismo, che riescono a uscire dalla tappezzeria.
Insomma, non la peggior scelta possibile, se cercate rifugio nell’aria condizionata di una sala cinematografica (nemmeno la migliore, ma sono mesi che non uso il bollino con la pecora e mi prudono le mani).
Ho visto bla bla bla, anteprima stampa, bla bla bla, gentilmente invitati, bla bla bla, Salvini boia, bla bla bla, «eh, io Eva non lo guardo, ma Cannarsi...», bla bla bla. Bla.