Il Dark Souls dei Dark Souls prima di Dark Souls: Demon's Souls
Voi direte, cosa c’entra un gioco di ruolo giapponese con una Cover Story sul fantasy all’europea, cupo e zozzo e pieno di sangue e tette?
«Non sono un fan di quelli che voi occidentali chiamate “JRPG"“»: l’ha detto in un’intervista a Edge Takeshi Kajii, il producer di Sony che andò da From Software con la proposta di creare un gioco dark fantasy che guardasse ai classici non con nostalgia ma con voglia di replicare quello spirito e quell’approccio in un contesto tecnologicamente più avanzato di un 386. E i “classici” a cui fa riferimento sono roba tipo Wizardry, occidentalissima, immersa fino al collo dentro Dungeons & Dragons, che non ha nulla a che fare con Final Fantasy e Dragon Quest (nonostante pure i loro creatori si siano in origine ispirati a Wizardry). Ecco cosa c’entra un gioco di ruolo giapponese con la Cover Story.
La storia di Demon’s Souls è la classica parabola del cult nel significato originario del termine, e la dimostrazione che anche i prodotti su commissione possono uscire bene se si incastrano certi ingranaggi. L’imbeccata venne, come detto, da Sony, che vide in From Software – al tempo soprattutto “quelli di Armored Core” – lo studio giusto per creare quello che di fatto diventerà una sorta di aggiornamento 3D di King’s Field, altro fiore pieno di spine velenosissime all’occhiello di From. L’idea di fondo era quella di sviluppare un gioco che puntasse tutto sul gameplay, sull’esperienza, sulla soddisfazione tattile del pigiare tasti e vedere succedere cose sullo schermo; poca narrazione, il meno tradizionale possibile, e spazio al giocatore per costruire il suo percorso.
Detto così potrebbe essere tutto e niente, e infatti la leggenda vuole che lo sviluppo di Demon’s Souls sia stato un casino fino a quando a un tizio che lavorava in From, Hidetaka Miyazaki, uno che fino a quel momento era girato solo intorno ad Armored Core, non arrivò la voce di un progetto dark fantasy impantanato nelle paludi dell’indecisione artistica. Ora, una cosa che dovete sapere di Hidetaka Miyazaki è che è un mega-appassionato di fantasy occidentale (la prima roba che cita parlando di Demon’s Souls sono i librogame della serie Dimensione avventura) che parla inglese più o meno come parla lituano, cioè non lo parla. Per cui, la sua esperienza con il fantasy all’europea è quella di un esploratore che sbarca in un’affascinante terra straniera dove tutti parlano una lingua semi-incomprensibile ma ci sono delle figure bellissime: ne viene fuori un uomo influenzato più dall’estetica (e dalle sue inferenze basate sulle figure e sulle poche parole inglesi che conosce) che dai contenuti, che su questo clamoroso equivoco costruisce un mondo pazzesco dove la filosofia e la spiritualità orientali – il karma, il tempo ciclico e non lineare, quelle robe lì – si incontrano con gigantesche e pesantissime armature di metallo e draghi che sembrano usciti dal manuale dei mostri di D&D. Con sopra una bella passata di videogioco purissimo, che racconta quello che deve (e può) raccontare tramite gameplay e lascia tutto il resto all’interpretazione di chi gioca.
Demon’s Souls è ancora oggi una creatura stranissima, un fantastico bestiario medievale, un viaggio disperato e nerissimo, un’esperienza intensa e che richiede una buona dose di concentrazione. La faccenda è questa: c’è una terra, dal buffissimo nome di Boletaria (fun fact: nonostante questo, Demon’s Souls è l’unico gioco From con “Souls” nel titolo che non contiene funghi), sulla quale è calata una nebbia brutta brutta tipo quella di The Mist, che fa arrivare i mostri e la cui presenza è causata dal fatto che qualche coglione ha liberato un Grande Antico. Nei panni di xX_Pu$$y$layer69_Xx, o come deciderete di chiamare il vostro personaggio, vi mettete in viaggio alla volta di Boletaria, sperando di essere voi gli Eroi Giusti per sconfiggere il Grande Antico e cacciare via la Nebbia Cattiva.
All’atto pratico, questo significa giocare a Mega Man in 3D, esplorando nell’ordine che si preferisce cinque (potevano essere sei, se avessimo mai avuto un DLC: lo spazio c’è e i contenuti anche) mondi classicamente divisi in livelli, pieni di merda, mostri brutti, mostri grossi, mostri di merda, paesaggi maestosi e desolanti, altri mostri, ogni tanto qualche sparuta anima pia con cui chiacchierare (poche e preziose: se vi dovesse capitare di giocarci, cercateli tutti e, in particolare, affidatevi al personaggio di nome Patches, che da solo è in grado di rendere l’intero gioco molto più facile e approcciabile, se seguite le sue indicazioni), e ovviamente tanto, tantissimo PHAT L00T da recuperare per diventare sempre più fichissimi e potenti. Ogni livello termina con il più classico dei boss, ogni mondo con il più classicissimo dei megaboss, il resto è tutto nelle mani di chi gioca: dove andare, cosa fare, chi ammazzare, da chi farsi ammazzare.
Su questo scheletro da avventura classica, sono innestati poi decine di sistemi più o meno complicati e intrecciati, che definiscono l’esperienza Demon’s Souls tanto quanto i suoi mostri grossi. C’è un approccio relativamente nuovo e da allora copiatissimo al fallimento: morire significa mollare a terra tutte le risorse (o i punti esperienza, o il denaro, tanto sono la stessa cosa) guadagnate fino a quel momento, risvegliarsi a un checkpoint con il mondo resettato e rischiare di perderle per sempre, se non si riesce a tornare sul luogo del delitto senza morire di nuovo. È il loop dei Souls che da Dark Souls in avanti è diventato famosissimo e che conosce innumerevoli tentativi di imitazione, qui presentato per la prima volta in una forma particolarmente crudele: morire significa anche perdere metà della propria salute massima, che è possibile ripristinare solo con un rarissimo oggettino o uccidendo il boss successivo; considerato che la prima versione del gioco prevedeva la cancellazione del salvataggio dopo ogni morte, ci è andata tutto sommato bene, ma resta che almeno sulla carta Demon’s Souls è un gioco estremamente punitivo, in cui il fallimento non è solo un ostacolo temporaneo ma un potenziale passo indietro.
Il punto è che funziona, non “nonostante questo” ma “proprio per questo”. I successivi Souls perfezioneranno la formula e ci aggiungeranno talmente tante sfumature da renderla più interessante ma anche molto più generosa nei confronti del giocatore (Sekiro, l’ultima loro fatica, è in questo senso il loro gioco più accogliente e morbido), ma Demon’s rimane quello in cui la minaccia della morte e delle sue punizioni stimola di più la creatività del giocatore e lo costringe maggiormente a improvvisare, inventare, sopravvivere. Ogni livello è più o meno enorme e pieno di nemici, i checkpoint sono pochissimi (cioè: sono uno a livello, all’inizio) e il progresso avviene non linearmente, con l’apertura di scorciatoie e l’utilizzo di altri triccheballacche di vario tipo, per cui ogni passo avanti verso l’ignoto nasconde la speranza di tornare il prima possibile al punto di partenza. Boletaria è un mondo che va esplorato palmo a palmo, naso a terra, non solo per non perdersi nulla ma soprattutto perché alzare troppo la testa significa pigliarsi gli scappellotti. Ci vuole umiltà, voglia di imparare e la capacità di improvvisare al volo in caso di emergenza (o di alzare i tacchi e correre velocissimo nella direzione opposta, una tattica che troppi giocatori dei Souls sottovalutano o considerando troppo umiliante per essere impiegata).
C’è molto poco di umano e di, uhm, “terreno”, in Demon’s Souls (e sicuramente, a differenza di Game of Thrones ci sono pochissime tette e cazzi, per la precisione zero), che riesce a rendere surreali una serie di ambientazioni che più classiche non si può (il castello, le rovine del castello spazzate dalla tempesta, la palude velenosa… ) e a trasmettere una costante sensazione di essere in un posto che che cosa cazzo ci faccio qui dovrei essere lontanissimo da qui, ma anche che chissà cosa c’è dietro quell’angolo e se sono abbastanza bravo da riuscire a girarlo senza farmi impalare da una spada lunga cinque metri. Dietro le quinte, si muovono poi una serie di tentacoli che trasformano sottilmente e quasi incomprensibilmente il mondo di gioco in risposta alle azioni del giocatore (se volete date una letta, poi vi interrogo e mi dite cos’avete capito), che senza farsi notare contribuiscono a spaesare e disorientare e confondere il giocatore e soprattutto non farlo mai stare del tutto tranquillo. Roba da survival horror in un gioco con le stat e il l00t e i passaggi di livello, in sostanza.
Tutto il resto (il sistema di combattimento, nel quale l’animazione è sacra e centrale, la porzione online, che oggi è esperibile solo tramite trucchetti) verrà poi ripreso, perfezionato, aumentato dai successivi Souls, e sono cose di cui ho già scritto altrove, se vi interessa. Probabilmente anche migliorato, nel senso che oggi, anno di Chtulhu 2019, Demon’s Souls potrebbe apparire terribilmente goffo, datato e piagato da scelte di design sì punitive ma in modo non interessante, se messo a paragone con le successive ripuliture. E resta soprattutto, in tutto questo franchise che non è proprio un franchise, il capitolo più ostico e criptico, che si svela lentamente e per capire davvero il quale un secondo playthrough è quasi obbligatorio.
Il suo essere così ostinatamente hardcore, però, questa scelta di renderlo una sorta di Resident Evil con i combattimenti di cappa e spada, è però ancora oggi la sua forza: più di tutto quello che è venuto dopo, Demon’s Souls è un gioco a cui non frega un cazzo di voi, che non fa attivamente nulla per danneggiarvi ma neanche per aiutarvi, immoto e inespressivo, vi osserva mentre inciampate su un cumulo di ossa che prende vita e comincia a menarvi con un bastoncino appuntito. È un gioco che spinge al miglioramento a botte di indifferenza e che riesce a trasformare la promessa di una nuova morte orribile in un motore potentissimo per andare avanti nonostante tutto il dolore.
(non è neanche così orrendamente difficile come lo sto dipingendo, anzi, è di una lentezza estrema, che lo rende parecchio gestibile anche ai neofiti)
Poi sì, la storia della Nebbia Cattiva e del Grande Antico e della Terra che si Chiama come i Funghi non è nulla di cui valga la pena parlare troppo (meglio, molto meglio, le piccole storie dei singoli boss, uno in particolare). E di sicuro nessuno scriverà mai approfondite analisi sulle modernissime tematiche politiche affrontate metaforicamente in Demon’s Souls, né loderà la caratterizzazione dei personaggi o bla bla bla. È un gioco di archeologia, di storie morte da disseppellire e di mostri vivi da seppellire, non di trotskismo applicato a un universo fantastico né di tette, sangue & sesso, ma se guardando Il trono di spade vi è capitato di pensare «Chissà come dev’essere stato aggirarsi tra le rovine di Eastwatch con solo una torcia e una spada, sapendo che potrebbero essere infestate da zombie cattivissimi», ecco, recuperate una PlayStation 3 o aspettate l’immancabile (spero) remaster e godetevi quest’esperienza.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Il trono di spade e al fantasy lercio, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.