Esclusiva
Nel mio vocabolario personale, il termine “esclusivo” potrebbe tranquillamente non esistere. Non mi piace servirmene e non amo che lo adoperino gli altri. Etimologicamente, escludere deriva dal latino “excludere”, ovvero "chiudere fuori”. Ora proviamo a fare un gioco - d'altronde qui su Outcast si parla di giochi, no? - immaginando una vita in soli termini di esclusività.
In questa vita ci svegliamo nel nostro esclusivo attico con vista su un'altrettanto esclusiva spiaggia, circondati da mobili di design a tiratura limitata. Facciamo colazione con un raro caffè kopi luwak, i cui chicchi sono cagati da uno zibellino. Poi saliamo sulla nostra auto di lusso, opportunamente modificata da un designer à la page, e ce ne andiamo in palestra dal nostro personal trainer. A seguire, pranzo in un ristorante stellato con tutti i coperti fermi fino al 2030, shopping di lusso e un filmetto su Red Carpet Home Cinema, alla modica cifra di duemilacinquecento euro. Infine, per chiudere la giornata in bellezza, discoteca con privé seguita da gigolò o escort di lusso.
Ecco, ora che avete provato questa vertigine di esclusività, che idea ve ne siete fatti? Siete soddisfatti? Tenere fuori i più per gratificare se stessi è ciò che vi aggrada? Perché pagare un film duemilacinquecento euro quando, aspettando un po’ di tempo, lo si può recuperare per pochi euro? Per non parlare del caffè di zibellino.
Nel corso degli anni, sbagliando anche sulla mia pelle, ho capito che il concetto di esclusività viene spesso adoperato dal marketing per vendere a caro prezzo oggetti o esperienze addirittura banali. Basta usare paroline magiche come “esclusivo”, “lusso”, “custom” o “privè” (la lingua straniera fa figo) e il gioco è fatto. Il consumatore si sente gratificato e ha la sensazione di aver investito sensatamente il proprio denaro.
Per quanto mi riguarda, desidero una società che sia la più inclusiva possibile; all’ “io me lo posso permettere, tu no” preferisco il “godiamone tutti”. E allora ben vengano i mobili IKEA, le magliette OVS e le automobili Volkswagen (almeno, nel significato letterale del termine).
A inseguire l’esclusività sono spesso coloro che desiderano lasciarsi alle spalle una realtà molto più ampia e complessa. Più che chiudere fuori gli altri, l’esclusivista rinchiude sé stesso dentro a un piccolo mondo narcisista.
Se parliamo di videogiochi, le cose non vanno diversamente. La cosiddetta “console war” partita più o meno all’inizio degli anni Novanta - penso alla campagna pubblicitaria ideata da Michael Katz per il lancio del Genesis - si trascina ancora oggi.
A mio parere, le esclusive fanno solo male alla crescita del medium, soprattutto in termini di tensione artistica. La letteratura, in gran parte del mondo e da anni, è ampiamente accessibile ai più, così come il cinema che può essere goduto a fronte di spese modeste, se non addirittura gratis. La pittura, poi, sempre più spesso esce dai musei o dalle gallerie per fare incursione nelle strade e sui muri delle città. Insomma, per quanto mi riguarda, più una manifestazione artistica è accessibile, meglio è.
In quest’ottica, sono sempre di più gli sviluppatori indipendenti che lanciano le proprie creazioni direttamente sui dispositivi mobile, che sono diffusissimi. Jenova Chen, fondatore di thatgamecompany, ha pubblicato Sky: Figli della luce su piattaforme iOS e Android, prima ancora che su console, e lo stesso ha fatto The Chinese Room (Dear Esther, Everybody's Gone to the Rapture) con Little Orpheus, mentre per Annapurna (Florence, Gorogoa, If Found…) è quasi una prassi. Questa apertura verso il segmento mobile da parte degli agenti di mercato più maturi indica la volontà di raggiungere una forbice di pubblico che sia quanto più ampia possibile. Per questo, credo che non ci sia futuro nella separazione, nel diabolico atto di escludere. È nell'inclusione, nell'unione, nell'integrazione che respira il futuro. È ora di deporre le armi della console war e la logica delle esclusive, se vogliamo che i videogiochi maturino.
La maggior parte dei videogiocatori, alla parola “esclusiva” associa produzioni roboanti come The last of us Part II, Ghost of Tsushima, Halo Infinite, Forza Horizon, Zelda Breath of the Wild e Mario Odyssey.
Personalmente, invece, al concetto di esclusività preferisco associare un gioco piccolo piccolo come Papers, Please, dove Lucas Pope infila il giocatore nei panni di un ufficiale doganale impiegato al controllo dei documenti. Nella ripetitività di scadenze, timbri e passaporti, Papers, Please nasconde dilemmi morali importanti. I personaggi che si presentano davanti all’ufficiale hanno quasi sempre una storia complessa alle spalle; come l’uomo che, pur avendo tutti i documenti in ordine, implora il doganiere di far passare la moglie. A quel punto sta al giocatore decidere se avvantaggiare l’uno, l’altra o entrambi, eventualmente a costo di una detrazione dalla paga che andrà a sua volta a condizionare altre variabili significative.
Senza un adeguato stipendio, infatti, non sarà possibile sfamare, scaldare o curare i nostri stessi familiari. Chiuso in una weberiana “gabbia d’acciaio”, l’utente è chiamato a scelte morali ad alto tasso di coinvolgimento emotivo. In Papers, Please, il futuro del migrante che si presenta davanti a noi è appeso al timbro che decidiamo di stampare sul passaporto. Verde o rosso? Esclusione o inclusione? A voi la scelta. Io ho già espresso la mia opinione.
Questo articolo fa parte della Cover Story esclusiva, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.