Gears of War: Mad World, motoseghe e ossa grosse | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Perché Gears of War?
Once upon a time in… Abruzzo. Un giovanissimo Stefano dal vago retrogusto di lattosio amava trascorrere il tempo dinanzi a oggetti che diversi ultra cinquantenni del posto, non troppo amabilmente, definivano “pazziarill elettronici”. Ai tempi, quella che era stata l’egemone sesta generazione di console a 128 bit, cominciava a incamminarsi lungo il braccio della morte, lasciando ben sperare nella venuta di una nuova, rettangolare, macchina.
Più o meno rettangolare, Xbox 360 era la bella della scuola. Tutti la volevano, ma pochi potevano permettersela. In realtà, quella dell’esclusività economica era una parabola che a un figlio del proletario come il sottoscritto conveniva ripetersi, ché dalle mie parti ce l’avevano due ragazzini su quattro, ma andiamo avanti.
Avete presente il classico compagno di classe viziato che, puntuale come un prete la domenica, vi chiamava la sera alle sei per dirvi di essere appena tornato dal centro commerciale carico di console? Beh, se tutto ciò non vi dice nulla: o eravate tristemente senza amici, o eravate quelli che andavano al centro commerciale. Io appartenevo a una terza categoria, quella peggiore: i rosiconi.
Una gamma di colori sconfinata distingueva la mia invidiosissima faccia quando, puntuale, venni invitato a passare il pomeriggio a casa sua davanti alla console Microsoft. Bella come il sole, potente e mostruosamente futuristica. Ma cosa ci faceva girare sopra il mio fortunatissimo amico? Lui, proprio lui, il gioco che mi aveva fatto sognare ai tempi del trailer. Quel maledetto trailer che per mesi mi perseguitò con la cover di Mad World. In altre parole: Gears of War.
Doverosa premessa. Nonostante mi ritenga un fanatico di Halo, se c’è uno sparatutto della grande X che più di qualunque altro mi causa movimenti basso-localizzati, quello è proprio Gears. Non me ne voglia il Chief. Gears of War by Epic Games, ma soprattutto by Cliff Bleszinsky; il capostipite di uno dei franchise più iconografici di Microsoft.
Perché Gears of War?
Innanzitutto, perché fu il mio primo vero assaggio di contemporaneità. Per me, abituato a monoliti neri con su scritto PlayStation 2 e cabinati fermi agli anni Novanta, osservare tutta quell’abbondanza visiva su tonalità tendenti al seppia, con uomini incredibilmente tozzi e amenità umanoidi dalla bocca dentata, era l’equivalente del giubileo per un cristiano. Estasi pura. Avevo dodici o tredici anni, quindi ero tecnicamente giustificato, ma ancora oggi davanti ai fucili Lancer della Ultimate Edition riesco a provare le stesse identiche emozioni.
Pianeta Sera. Dopo secoli di guerre imperialiste l’umanità trova finalmente la pace. Un armistizio venne firmato, e il giubilo invase le strade delle più grandi città del pianeta. I festeggiamenti si protrassero ovunque, finché, pochi giorni più tardi, qualcosa emerse dalle profondità del pianeta: le locuste. Questi esseri sciamarono in ogni angolo del pianeta, città dopo città, continente dopo continente. Al genere umano non restò che immolarsi con la stessa arma che aveva posto fine alle guerre Pendulum… il Martello dell’Alba.
Una magnifica quanto brutale fotografia incorniciava l’ambiente di gioco. Le architetture quasi autarchiche delle città COG immergevano il giocatore nel giusto grado di meraviglia e orrore. Come non dimenticare la prima volta a Ephyra, completamente avvolta da quell’aura distopica, quasi surreale, prodotta dalla guerra.
Tuttavia, il ricordo più bello lo riservo a lui. Il solo e unico eroe degno di racconti e ballate: Marcus “ossa grosse” Fenix. Laconico e assolutamente risoluto, il buon Marcus Fenix è stato il volto che ha contribuito a esaltare e mitizzare la serie in ogni sua forma e dimensione. Per qualche ragione, non solo fisionomica, nei suoi panni ci sentivamo al sicuro, anche in via di alleati come Dominic “Dom” Santiago, senza mezzi termini uno dei personaggi meglio scritti della serie, o Augustus Cole, asso del trashball – il football che vorrei – e umorista del gruppo. Ancora, come scordare il geniale Damon Baird, lo sfigatissimo Anthony Carmine e il nostro fidato Jack.
Tra gli stretti cunicoli del sottosuolo di Sera le locuste sciamano in abbondanza con le loro ridondanti frasi: “battiterraaa – umanoo”.
Un pianeta infestato, frasi al testosterone e quel maledetto sistema di ricarica. Gears era ed è tutto questo, perché nonostante sia vistosamente invecchiato in alcune meccaniche, resta ugualmente un gran bel pezzo di videogioco. Bello non solo esteticamente, ma anche e soprattutto dal punto di vista ludico.
Per molto tempo invidiai il mio amico che, nonostante tutto, continuava a invitarmi nella sua cameretta forse mosso a compassione, forse per amicizia, oppure perché era un sadico bastardo. Fino a quando, la svolta: promesse fantozziane e un esame di terza media arrivato direttamente dalla provvidenza, fecero sì che mio padre, riciclando chilogrammi di giochi PS2 con console e pad annessi, mi comprasse una Xbox 360. Quel patto col diavolo stipulato davanti al commesso di una nota catena fu ammonitore. Giusto il tempo di girare su qualche colossale anello fluttuante, chiudere i portali per l’Oblivion e, ovviamente, tornare su Sera, e venni colpito dalla tragedia dei led rossi della morte.
Nel corso degli anni la serie di Gears of War è cambiato tanto quanto quella di Halo, tuttavia non voglio figurare fra i detrattori: Gears, continua e continuerà a piacermi in ogni sua veste per quelle stesse ragioni, per cui, oltre dieci anni fa, me ne innamorai perdutamente. Quel concept fantascientifico così singolare, carichissimo e frastagliato di una brutalità mai velata, mista a momenti di puro sentimentalismo, vero e mai banale. Perché Gears riesce anche a far piangere, e lo fa con momenti di un’umanità allarmante.
Ecco perché Gears of War.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.