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Horizon Forbidden West - Questa Era Hyboriana mi distrugge

Horizon Forbidden West - Questa Era Hyboriana mi distrugge

Quando bazzicavo i circoletti universitari durante il mio periodo “post corsi/pre laurea”, incastrato tra una spocchiosa dell’accademia di belle arti di Brera e un maestro del secondo 900 italiano, un concetto assumeva profili interessanti: il fascino della rovina.

Ad un certo punto della costruzione dell’edificio, è possibile scorgere in quelle forme abbozzate come sarà l’immagine futura della costruzione in rovina. C’è quindi un momento, se vogliamo formalmente perfetto, nel quale la bellezza delle forme ancora immature della fabbrica anticipa la bellezza del rudere, prima che questo diventi maceria. L’alfa e l’omega, contemporaneamente.

Le Praerie Houses di Frank Lloyd Wright furono una critica aperta allo stile neoclassico imperante nell’America della fine dell’800, a partire dai modelli vernacolari della tradizione.

Questa suggestione mi è tornata alla mente mentre batto le piste di caccia che separano Aloy dall’Ovest Proibito, il Forbidden West che dà il titolo al nuovo Horizon.

Il mondo di Horizon è esattamente questa roba di cui sopra. È il futuro e il passato che vanno a braccetto. È l’umanità regredita fino alla dimensione tribale e da quella ha cominciato a risalire. Nel mezzo ci sono le rovine, osservabili attraverso apposito mini gioco ed esplorabili per un momento di blando puzzle ambientale. Non solo, non è un contesto statico, non siamo all’albore della civiltà, ma c’è una storia che il paesaggio e le strutture che visitiamo raccontano.

Cosa ci fa una roccaforte di stampo vagamente medioevale nel cuore dell’America? E perché, nonostante sia assolutamente fuori contesto, è già diroccata, presenta superfetazioni lignee dall’aria provvisoria? La porta tra un regno e l’altro, tra il noto e l’ignoto, l’ultimo segno oltre il quale il gruppo più progredito è andato ad impattare contro le tribù dell’ovest, che lo hanno costretto a fermarsi. Portali che mostrano ancora i segni della battaglia, superstizioni che raffigurano i rispettivi schieramenti come demoni. È la società che emerge con i suoi modi all’apparenza imprescindibili dalla natura umana.

Paese che vai, speculazione edilizia che trovi.

Questa scelta di world building, che in fin dei conti è un senso di ciclicità, pervade da sempre la coscienza collettiva umana, dalle filosofie orientali all’eterno ritorno di quel tale, Zaratustra, che a sua volta è una reprise della circolarità tipica della mitologia norrena, con il suo Ragnarok (del resto se Dio è morto lo dobbiamo anche a loro, che ammazzavano divinità mentre noi ancora si accoltellava un Giulio Cesare), non è estranea nemmeno a esperienze narrative più recenti.

Per citarne qualcuna, senza soffermarmici troppo: La terra spezzata di N. K. Jemisin, acclamata saga fantasy di una fra le più importanti scrittrici afro-americane sulla piazza (ma che a me onestamente non ha particolarmente entusiasmato, lasciandola arenata sul secondo volume); l’indimenticabile saga di Shannara di Terry Brooks, e il suo mondo al collasso risollevato dalla magia ma che poi-forse-tanto-magia-non-è (sicuramente una lettura formativa ma che adesso non riprenderei).

Ma se devo scegliere quale di questi passati futuri identificare come quello più vicino ad Horizon non ho dubbi: l’era Hyboriana, l’epoca immaginata da Robert Howard per i racconti di Conan il barbaro.

Non che questa sia una terra del futuro dove il mondo è andato giù per lo scarico, ma nella sua formulazione, Howard la piazza comunque dopo l’evento cataclismatico che ha affondato Atlantide e Lemuria, le civiltà più avanzate prima dell’inizio della civiltà.

Ecco, in Horizon, l’Atlantide caduta siamo noi e il mondo è ripartito da zero, seppur non riuscendo del tutto a distaccarsi da alcune forme di pensiero che sono intrinseche nella struttura sociale umana.

Ma non è soltanto la collocazione temporale post-catastrofe (non mi piace banalizzarla come post-apocalisse, qui parliamo di un totale azzeramento della civiltà umana, che è ripartita da zero), ad avvicinare le avventure di Aloy a quelle di Conan, è tutto il contesto con il quale queste sono pensate a dare alla storia un gusto totalmente heroic fantasy.

Il peregrinare per il mondo, gli incontri, le quest, l’alternanza di nemici umani a “mostri” tecnologici, l’incappare quasi controvoglia in trame più grandi che spingono oltre il personaggio, l’aiutare il passante in difficoltà tanto quanto il re il cui trono è minacciato, tutto ciò “in un tempo primordiale che corrisponde ai fondamenti primordiali dell’animo umano” (cit.)

Come Conan, Aloy è una barbara, nel senso più puramente howardiano del termine: il barbaro è l’uomo schietto e non machiavellico, forte anziché rammollito dalla civiltà, una capacità di resistenza e un senso di giustizia che sono sintomo di una grande forza interiore, che si manifesta non solo uccidendo il nemico, ma anche resistendo stoicamente contro tutte le avversità. Sono prerogative morali che diventano fisiche e che avvicinano due eroi separati da un secolo buono di storia, entrambi contraddistinti dalla tenacia propria dei campioni che nel momento risolutivo sconfiggono il male assoluto con la forza della leggenda.

Sarebbe stato bello vederla disegnata da Frank Frazetta.

Ma qualcosa nella sua caratterizzazione la allontana dalla facile associazione a Red Sonja e dal suo bikini a piastre, altra eroina howardiana a cui l’autore dedica uno lo sparuto racconto The Shadow of the Vulture ma che troverà invece gloria tra le pagine del fumetto, prima nella classica serie Marvel Conan il barbaro del 1973, scritta da Roy Thomas e disegnata da Barry Windsor-Smith (esordendo nel numero 23) e successivamente diventando una fra le icone della casa editrice Dynamite.

Le finalità alle quali rispondeva Conan erano quelle della compensazione del desiderio di potenza del suo autore, un ometto che se non fosse stato baciato dalla dea della prosa probabilmente sarebbe diventato un serial killer alla Norman Bates, afflitto dalla presenza di una figura materna ingombrante e in difficoltà nel gestire i rapporti con l'altro sesso.

Inoltre, sposava le istanze del rifiuto della modernità. Howard era in tutto e per tutto l'anti-Fritzgerald che invece di quella stessa modernità era il cantore.

Aloy in questo non è troppo diversa da Conan. Rappresenta sì una compensazione di un desiderio di potenza, ma contestualizzato nel movimento femminista contemporaneo che giustamente esige la parità di diritti tra uomini e donne. Il personaggio è quindi caratterizzato in modo tale da rispettare la narrazione della figura femminile che può essere protagonista di una storia (o di un videogioco) in quanto tale e non perché tale.

Non un desiderio di potenza personale di chi scrive ma collettivo di tutte le giocatrici.

The placeholder.

Che poi questo sia il personaggio che arriva al momento giusto è un altro paio di maniche ma vale le pena ricordare come tutti i personaggi siano una emanazione indiretta dei tempi filtrati attraverso la sensibilità degli autori e se si trova a sposare, diciamo, incidentalmente una istanza giusta come quella del femminismo e dell'ambientalismo, non può mai essere nocivo quanto invece un personaggio che non lo fa ma che comunque riceverebbe le medesime campagne mediatiche.

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