Attingere alla fonte: il reboot degli X-Men
Se leggo i fumetti lo devo principalmente all’imprinting dato in tenera età dalla bella (???) serie animata degli X-Men che passava Italia Uno.
Non c’è da sorprendersi, quindi, se nel momento in cui ho preso maggiore consapevolezza della materia fumettistica e ho iniziato una lettura in maniacale ordine cronologico della Marvel io sia partito da loro, dagli X-Men di Claremont. Uno standard sostanzialmente inarrivabile per la maggior parte delle serie anche contemporanee.
Fatto sta che il mio amore per i mutanti nel corso degli anni non ha fatto altro che rafforzarsi, nonostante la loro storia in casa Marvel abbia subito alterne fortune e battute di arresto. Come quella volta che hanno provato a rimpiazzare il loro ruolo all’interno dello scacchiere fumettistico della Casa delle Idee con gli Inumani. Gli Inumani: non puoi neanche pronunciarli senza sbadigliare.
Sta di fatto che dal momento in cui Disney è riuscita ad acquisire sotto il suo controllo tutte le IP che negli anni di crisi la Marvel aveva sparso in giro per Hollywood (giusto Spider-Man ha una gestione alternata), gli X-Men hanno subito un reboot fumettistico per presentare ai nuovi lettori personaggi iconici nella veste migliore possibile.
A svecchiare il marchio X-Men una delle migliori penne della Marvel, quel Jonathan Hickman che aveva ristrutturato prima i Fantastici Quattro e poi gli Avengers.
Un nome una garanzia, insomma, e con questo nome in ballo, con le finalità che si era posto, io non potetti resistere e ci caddi dentro con tutte le scarpe.
La mia storia con il fumetto americano contemporaneo ha andamento ondivago. Mi faccio prendere dall’entusiasmo e poi mando a cacare la serie che sto seguendo perché ad un certo punto semplicemente non ne vale più la pena (o la spesa).
Non ho ancora capito se è un limite mio, un limite di come i fumetti americani vengono scritti adesso, con la sostanziale incapacità di gestire trame complesse a lungo termine, sta di fatto che attualmente trovo troppo più appaganti le serie limitate che quelle incasellate dalla continuity.
E questo Evento Epocale orchestrato da Hickman si presentava proprio così. Una doppia miniserie intrecciata da leggere alternando gli eventi di una ai retroscena raccontati nell’altra. House of X e Power of X (in questo caso leggasi “ten”).
La prospettiva di vedere il mio supergruppo preferito riportato a nuovo splendore da un autore competente era un sogno che si avverava, così bruciai le tappe, non potevo aspettare che la distribuzione italiana mi servisse la storia “fredda” e a scatola chiusa, soprattutto. Tornai alla fonte della conoscenza fumettistica, tornai alle scansioni in lingua originale reperibili in contemporanea con l’uscita USA.
Sconfiggere la pigrizia della lettura in inglese è come sbloccare l’onniscienza. In un momento tutte le testate di informazioni fumettistica sono inutili perché tutte le informazioni e le critiche che possono muovere sono improvvisamente di seconda mano.
È una sensazione inebriante.
Così mi fiondai su queste gustosissime scan e devo dire che non ne rimasi deluso.
La storia ha una complessa articolazione fantapolitica, per certi versi molto vicina ai temi trattati da Asimov nella serie della Fondazione, dove i mutanti, capitanati da un redivivo Charles Xavier, riescono con una serie di escamotage politici ed economici a dichiararsi nazione indipendente con un suolo patrio sul quale nessuna altra nazione potesse accampare diritti, l’isola mutante di Krakoa, la cui principale esportazione è un farmaco che guarisce sostanzialmente qualsiasi tipo di malattia.
La miniserie era fighissima per come sfruttava scientemente anni e anni di continuity ed elementi tipici del mondo mutante in una narrazione coerente. Nemici mutanti, sentinelle, mondi alternativi, viaggi nel tempo: in dodici albi incredibilmente densi di accadimenti e rivelazioni, tra tutti il potere mutante di rinascita di Moira McTagget, venivano raccontati i primi giorni e gli antefatti della nascita della nazione mutante di Krakoa, l’istituzione di un linguaggio mutante (come Kojima ci insegna, una nazione vive nella lingua che i suoi abitanti parlano), l’organizzazione del governo, le nuove regole secondo le quali i mutanti giocheranno da lì in poi.
Mi prese davvero molto bene, talmente bene che poi i suddetti albi li comprai al momento dell’uscita in edicola, ma questa complessità, questo approccio maturo e incredibilmente poco commerciale nei confronti della materia supereroistica non poteva durare.
Da quella miniserie partirono almeno undici serie regolari alle quali vanno a sommarsi gli speciali, i Giant-Size, gli episodi crossover con il maxievento Marvel del momento, le serie limitate.
Al punto in cui sono arrivato a leggere io (settembre 2020) le uscite ammontano a quattordici tra mensili, quindicinali e speciali. Una tale mole di testate per saturare il mercato cercando di intercettare più fasce di pubblico possibili. Leggerle e seguirle tutte è un massacro che passa per un’altalenante (è dir poco) qualità della scrittura e dei disegni a tematiche schizofreniche che si prefiggono di tenere insieme un quadro apparentemente coerente di eventi: si va dai virtuosismi di Viktor Bogdanovic sulla testata in solitaria di Wolverine, al raccapricciante Phil Noto su Cabel (qui in versione bimbominchia) scritto da Gerry “scimmia che batte sulla tastiera” Duggan. Tra questi due estremi tutte le sfumature di qualità grafica possibile che si mischiano in un gusto troppo spesso anonimo che sconfina nella dimenticabile mediocrità.
Il ruolo di Hickman in tutto ciò è molto simile a quello di uno showrunner, che indica la direzione che gli eventi devono seguire sul lungo periodo lasciando agli sceneggiatori libertà di azione purché restino nei limiti della via da lui tracciata.
Per lui si è conservato la scrittura di quella che dovrebbe essere la testata principale dell’universo mutante, X-Men, sui disegni di uno svogliatissimo e stranamente statico Leinin Francis Yu. Anche qui l’aggettivo che mi viene da accostargli è “incostante” prediligendo una struttura fortemente episodica piuttosto che ad archi composti da quattro o cinque numeri, tutti volti a raccontare particolari aspetti del nuovo mondo mutante, come quello in cui Nightcrawler, personaggio da sempre caratterizzato da una forte spiritualità, si interroga sul divino di fronte all’effettiva sconfitta della morte da parte dei mutanti. Oppure altri episodi incredibilmente votati all’azione, come quando Magneto supportato da l’Uomo Ghiaccio e da Magma, nel numero undici, respinsero da soli l’invasione dei Cotati che teneva in scacco il resto dell’universo Marvel.
Il principale “contro” di questo modo di portare avanti la storia è che seguire solo X-men è impossibile, l’approccio freddo e distaccato di Hickman unito alla struttura episodica annulla qualsiasi legame empatico con i personaggi di cui racconta, diversi ogni volta che si apre un albo, negando il punto di forza che fece la fortuna delle serie mutanti classiche.
Inoltre, leggendo altre testate sembra che l’impatto mondiale dell’esistenza della nazione mutante sia praticamente nullo, che questa ci sia o non ci sia non ha nessuna rilevanza e questo è incredibilmente strano, considerato come con un farmaco miracoloso abbiano sconfitto tutte le malattie e il cancro, accentuando il classico effetto “bolla” che un po’ tocca tutte le serie per le quali “eventi fondamentali importantissimi” sono solo per chi legge la testata e il resto sticazzi.
Arrivato al prologo di X of Sword (leggasi “Ten”) sono stanco e annoiato; il rivoluzionario mosaico non solo non è riuscito a coinvolgermi, ma addirittura ad allontanarmi dalla serializzazione americana tradizionale.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Meglio tardi che mai”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.