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Civilization: una cosa in cui faccio schifo che mi piace tantissimo

Civilization: una cosa in cui faccio schifo che mi piace tantissimo

C’è stato un tempo remoto in cui ero un giocatore PC.

No, ‘spetta, detto così è scorretto.

C’è stato un tempo remoto in cui avevo un PC per giocare.
Ecco, questa è la forma corretta, ché tra le due cose passa un abisso. In generale, l’essere un giocatore PC e avere un PC pertengono categorie umane diverse.

Resta che in quegli anni remoti di gioco su PC occupavo il mio tempo principalmente con gli strategici.
Age of Empires II è stato ospite fisso del lettore e monogico per gran parte della mia preadolesceza.
a seguire: Age of Mythology e Age of Empires III. Non mi informavo per davvero, i miei coetanei erano tutti, giustamente, ancorati al monolito nero di Sony, che era oggettivamente la console più figa possibile con la quale campare quando si è ragazzini.
Io ne ero sprovvisto e riempivo il tempo libero macinando vite umane una partita in mappa casuale alla volta.

In tutta la gloria della bassa definizione

Al liceo avvenne una mezza rivoluzione quando, per il solito passamano, mi arrivarono prima Rome: Total War e poi Medieval II: Total War. Fu una storia d’amore intensa e travolgente. Il doppio piano strategico tra turni e gestione della mappa, il piccolo pianificatore che era in me godeva di ogni miglioramento apportato alle città, ogni regione aggiunta al mio vasto impero della settimana era una goduria tutta da gestire e potenziare.

Come tutte le storie d’amore adolescenziali il tempo ci divise, imboccammo strade diverse, non so di chi fu per primo la colpa se mia, quando abbandonai il vecchio PC e i suoi cronici problemi di alimentazione, oppure lui, Total War quando uscì Empire che no, non era al livello di Medieval II.

A diciannove anni rimpiazzai il PC con un MacBook Pro 13” srotolando davanti al cassiere del Saturn dodici cocuzze di sudati risparmi; avevo un Xbox 360 e la salda convinzione che giocare su console fosse un segno di maturità per lasciare il computer alle cose serie, le cose di lavoro. E quindi un MacBook Pro 13” che poi, che cazzo di lavoro avevo intenzione di portare avanti a diciannove anni nemmeno me lo ricordo, di certo nessuno che necessitasse un MacBook. Anni confusi, anni di gioventù e sbagli, ma chi siamo noi per dire se sono finiti? Del resto da allora ne sono passati soltanto undici e ancora dobbiamo inventarci qualifiche professionali per trovare una collocazione nel mondo.

Venduto.

Venduto.

Passò un po’ di tempo prima che iniziai a smanettare anche col MacBook. Male, ovviamente. Con tutto il bene che nutro per la seconda incarnazione di Xbox, giocare su console voleva dire portarsi dietro l’endemica mancanza di titoli strategici, gli stessi che mi avevano svezzato e che, nel frattempo, si erano evoluti e un po’ mi pesava lo avessero fatto senza di me.

Fu più o meno alla seconda estate che passai col MacBook che installai Civilization V e non ho la più pallida idea di come lo conobbi. Probabile che mi passò davanti sul sito di Torrent che scandagliavo giornalmente (ciao, TNT, insegna agli angeli la condivisione di prodotti culturali) e venni attirato dall’etichetta più rara dell’oro di gioco per Mac. In pratica, sui Mac ci si giocava anche, in barba alla buonanima di Steve Jobs.

Superato il momento di turbamento, scaricati i quattro giga del pacchetto di istallazione ed già ero dentro. Credo avviai direttamente una partita, impostai tutto casuale, non sapevo niente, non ricordo nemmeno se approcciai un tutorial o qualcosa di simile, ma considerato come giocavo (e gioco tutt’ora) a scelte randomiche o emotive, ne dubito fortemente.

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Fu amore a prima vista.
Ne amavo la sintesi grafica, il concetto di mondo ridotto a scacchiera, lo sviluppo umano tutto riprodotto in meccaniche ludiche, nonostante la mia educazione fatta di Age of Empires e Total War mi facesse partire di capoccia contro chiunque.

Indimenticabile una mattina d’estate, completamente stordito dai postumi, mi recai a casa di questo amico, anche lui stordito dai postumi, per smaltire la nottata precedente andando in spiaggia. Non so nemmeno perché avessi il Mac dietro, sta di fatto che ci piazzammo da lui, col suo pc a fare da accompagnamento (live dei Queen e Il nemico alle porte), e giù a giocare a Civilization dalle dieci del mattino fino alle sei di sera, quando la di lui ragazza ci telefonò per riportarci alla realtà (la realtà: fare aperitivo e ripiombare nel loop meraviglioso che sono le estati di quando hai vent’anni).

Quel giorno i cinesi conquistarono il mondo con la forza dei loro balestrieri scappottando l’Armata Rossa, e finanche i temibili panzer tedeschi vennero ridotti a puntaspilli nell’impresa di estendere a tutta la terra il nome “Cina”. In memoria di quell’epica impresa e di cosa significhi essere giovani, Civilization è da allora ospite fisso dei miei Mac.

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Ho giocato molto anche a Civilization VI, che è oggettivamente migliore in tutto, dalla grafica, alle meccaniche di gioco, ha un sistema diplomatico più raffinato, espansioni che sono veri ribaltamenti della situazione, ma non mi è mai più capitato di fare chiuse di otto ore a un gioco come quella famosa mattina, e forse un po’ mi manca, l’attimo di poetico abbrutimento.

Oggi non riesco a giocarci davvero con continuità, non riesco a portare avanti una partita a livelli veramente buoni e prima del tramonto dell’età Classica la mia civiltà viene matematicamente murata dalle colonie dello stronzo di turno, con conseguenze ingente investimento bellico e sorgere di un’età oscura per aver sottratto risorse alla scienza e alla tecnica in nome di un predominio territoriale e l’accaparramento delle risorse naturali fondamentali.

Quando sono in pessima forma anche i barbari mi fanno il culo. È successo. Non ne vado particolarmente fiero.

Ogni volta che ripiombo nel loop, solitamente allo scattare di una nuova espansione o alla periodica uscita di pacchetti con nuove civiltà, finisco a passarci un pomeriggio o due, con cose come le scadenze, i lavori, la vita ad arginare la frenesia del gioco.

Quando invece il loop attacca in un momento di basse ingerenze reali, è facile ricadere nel baratro, trovare appagamento nel senso di progressione e crescita di quei piccoli omini che dichiarano la loro esistenza al Mondo una casellina esagonale alla volta; vite semplici in uno scacchiere più grande, ignare del gioco di cui fanno parte.

Il loop diventa la nascita fino all’estinzione della civiltà (che coincide solitamente con l’uscita dal gioco, chiunque dice di salvare e riprendere la partita con la stessa verve e gli stessi risultati, mente), e questo ciclo infinito di estinzioni sovrapposte, questa concatenazione di fallimenti come ere incastonate nella stratigrafia geologica del gioco mi procurano un senso di vertigine, nausea, stordimento come se il troppo vissuto di quelle anime perse alla fine della partita mi si riversasse addosso.

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Non sono mai riuscito a vedere la fine di una partita di Civilization VI.

In questo momento, mentre scrivo, non apro il gioco da un pomeriggio di novembre del 2020, uno di quei pomeriggi di buio precoce alla finestra e la lampada che spande una luce gialla sulla scrivania ingombra dal MacBook, svariate carte e matite. In sottofondo un podcast di Outcast racconta di come Hades potrebbe diventare la nuova figata in città, e il ginocchio fa ancora un male cane.

Per completare questo articolo, in questo istante sto per avviare una partita utile a procurarmi le foto a corollario. Se lo state leggendo, evidentemente sono riuscito a riemergere.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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