Una notte al museo... dei Radiohead
Seguo i Radiohead dal loro esordio, li ho visti dal vivo diverse volte e Jonny Greenwood è mio vicino di casa (non scherzo). La loro musica ha fatto da colonna sonora a gran parte della mia vita, da quando diciannovenne cantavo a squarciagola Creep, ventiquattrenne suonavo le intricate linee di basso di Paranoid Android, ventisettenne rimanevo spiazzato dalla virata elettronica e free jazz di Kid A e Amnesiac. Poi piano piano li ho abbandonati. Hanno preso una piega troppo concettuale, altezzosa, in continua contrapposizione con tutto ciò che può essere definito “pop”, ordinario, di massa. A cominciare dal Thom Yorke che frequenta artisti underground (Stanley Donwood) e sembra sentirsi più a suo agio come ballerino di danza contemporanea (Anima).
Anche Jonny Greenwood non scherza: firma quasi tutte le colonne sonore dei film di Paul Thomas Anderson e scrive composizioni per organo antico con tre note da 5 minuti ciascuna. Niente di male, per carità, ognuno insegue la propria indole artistica e ideologica, ma quando questa arte diventa elitaria o accessibile a pochi, semplicemente perché i molti non hanno le competenze e gli strumenti per riconoscerne o leggerne le qualità, allora si sta facendo un’operazione puramente autocelebrativa, solo per addetti ai lavori. La prima cosa che ho pensato quando ho saputo che i Radiohead avrebbero lanciato un loro “videogioco” prodotto da Epic è stata: “OK, ci risiamo, sarà il solito esperimento artistico usando un medium nuovo”. Beh, cari miei Radiohead, i videogiochi sono in giro da una sessantina di anni e no, forse non ne avevamo bisogno, ci bastava la vostra musica e non ci serviva un museo virtuale di arte contemporanea onanistico, con tanto di catalogo e shop finale (in realtà spammato per tutta la durata del gioco) con prezzi da capogiro!
Ma andiamo con ordine. Ho scaricato gratuitamente Kid A mnesia Exhibition dall’Epic Store e l’ho lanciato. Davanti a me, un muro di cemento con la scritta KID A MNESIA. Mi giro e mi rendo conto di essere in una foresta di alberi spogli e in lontananza si scorge una lucina rossa. Dopo pochi passi, sono di fronte alla porta con la lucina, che altro non è che un sensore di movimento che la fa aprire al mio passaggio. Salgo un paio di scale e iniziano le note di piano dell’intro di Everything is in the right place. Brividi. Ci sono ricascato. Mi hanno fregato ancora una volta, questi ragazzi.
Prima di entrare nel corridoio di monitor RGB alla fine delle scale, c’è la spiegazione di come vivere l’esperienza. Viene messo subito in chiaro che “questo non è un gioco, bisogna prendersi il dovuto tempo, alcuni luoghi hanno senso e altri no”. E allora il giro in quello che altro non è che museo di arte contemporanea che potrebbe essere stato disegnato da Zaha Hadid e infarcito delle gigantesche opere di Anish Kapoor ha inizio . È un susseguirsi di installazioni, di stanze, di esperienze visive e sonore. Si viene risucchiati, fagocitati e risputati in quell’universo distopico e nichilista a cui Thom Yorke e Stanley Donwood hanno dato vita tra il 2000 e il 2001. Un mondo in decadenza, frequentato da figure filiformi che si aggirano sconsolate e senza meta, quasi schiacciate dal peso delle immagini e sovraesposte alle informazioni. Prodromo di quel futuro che a grandi passi sta andando incontro al metaverso e quindi un’alienazione sempre più marcata. Verso la fine imminente dovuta al cambiamento climatico e alla modificazione genetica. Il tutto sotto lo sguardo implacabile di una morte armata di falce.
Kid A e Amnesiac sono i due album che segnano la rottura da un passato che Thom e compagni sembrano voler rinnegare. Dopo l’estenuante tour di OK Computer, si ritrovano sull’orlo del collasso psicofisico. In un piccolo poster dentro a una cabina telefonica, il loro iconico orsetto dai denti aguzzi, affamato di ricchezza e gloria, pronuncia queste parole: “Ho viaggiato in tutto il mondo, sono stato nei migliori hotel, visto le spiagge più belle e avuto accesso a donne stupende, a champagne e caviale. No, non ne rinnego nessun minuto.” L’orsetto è sempre più affamato, sembra non volersi fermare più. A un certo punto credo che i cinque ragazzi di Oxford si siano sentiti molto probabilmente come minotauri rinchiusi in un labirinto, diventato prigione immaginaria del loro stesso successo. Saranno riusciti a trovare la porta che li ha portati fuori? Il testo della canzone Pulk/Pull Revolving doors, che troviamo citato sia all’ingresso del museo che in un passaggio sotterraneo, è piuttosto esplicativo dello stato emotivo in cui si trovavano.
Kid A mnesia Exhibition non è altro che un walking simulator in cui bisogna attraversare porte per entrare di volta in volta in stanze diverse, soffermarsi a guardare e ascoltare. In un recentissima, breve e gratuita avventura punta e clicca dall’esplicito titolo Doors, Stefano Gualeni mette brillantemente in mostra i vari tipi di porte nei videogiochi e la loro fondamentale importanza sia sul piano del game design che per le implicazioni filosofiche. Ne individua ben undici tipologie e molte di queste le ritroviamo proprio in Kid A mnesia Exhibition.
Alla fine, secondo me Thom Yorke e Stanley Donwood si sono voluti costruire, più che un museo, un mausoleo per custodire nel tempo il ricordo di un momento della loro vita che forse ha toccato l’apice della loro creatività artistica e che purtroppo non tornerà, infarcendolo per di più di memorabilia costosissime per spillare un po di soldi a fan nostalgici, che pur di prendersi un tè con le tazzine dei Radiohead, saranno disposti ad accendere un mutuo. Io continuerò ad ascoltare ogni tanto i loro CD.