NAM-1975 e l’odore di pixel bruciati al mattino | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
“Giocare alla guerra”, un modo per esorcizzarla, controllarla, renderla innocua, rifiutandone la brutalità reale per privilegiarne quella ludica, che sia per mezzo di un fucile di plastica o di un cabinato. Un meccanismo anestetico che ha trovato nel videogioco la sua massima espressione, cercando spesso un punto di vista diverso da quello del cinema di genere. Negli ultimi quarant’anni, le software house hanno infatti virtualizzato ogni tipo di conflitto, dalle Guerre Mondiali ai conflitti in medio oriente, da ipotetiche invasioni aliene alle black ops lontane da occhi indiscreti, fino ovviamente al Vietnam, inesauribile fonte di orrore e ispirazione. Gli approcci all’argomento sono diversi, c’è chi porta avanti un discorso votato alla sensibilizzazione, basti pensare a come Valiant Hearts di Ubisoft raccontava la Grande Guerra, tra gli altri, o chi si concentra sulla replica delle tattiche militari, vedi strategici o sparatutto votati al multiplayer, e chi invece come SNK decise di prendere gli scenari più iconici del Vietnam e usarli per una reinterpretazione meramente spettacolare, assurda ed esplosiva, scelta per accompagnare il debutto del Neo Geo nel 1990: NAM-1975.
Devo ammettere che giocarci in questi giorni di tensione e angoscia, con la testa che per forza di cose prende costantemente il volo in direzione Ucraina, mentre le news si susseguono e la vita prosegue non senza un minimo di senso di colpa, è stato in una certa misura terapeutico, oltre che interessante a livello di didattica videoludica. NAM-1975 è stato un battesimo del fuoco, il più classico dei “one man army”, giocatore contro tutti nelle vesti di un super-soldato pagato a gettoni, un John “Rambo/Matrix” che si muove a passi laterali su un teatro di guerra che scorre lateralmente e costantemente, srotolandosi come una pellicola segnata dalle scanline, mentre i nemici sbucano da ogni angolo dello schermo. “Do i have to go back to this hell again?”, urla il protagonista nell’introduzione, pronto per il congedo e richiamato in missione, cercando di trasmettere la giusta rabbia per buttarsi, mitra alla mano, in un vero e proprio proto-TPS che prende in prestito meccanismi da light-gun shooter, con un sistema di controllo che mi è sembrato invecchiato decentemente; riuscendo a creare una giocabilità abbastanza profonda da volerla apprendere e approfondire, al netto della legnosità di certi input. È un perfetto giocattolo bellico, capace di stilizzare la guerra per renderla qualcosa di “esaltante”, mezz’ora di pura distruzione virtuale. Un sentimento ambiguo e totalmente svuotato del concetto di “conseguenza”, anche attraverso un gameplay diametralmente opposto a opere più coinvolgenti, pseudo-realistiche, magari in soggettiva. Molto più simile alla guerra intesa come gioco da bimbi, tra soldatini e action figure, più tollerabile. Ci si muove, si scatta e si fa pure la “ruota”, benedetti da qualche frame d’invincibilità, mossa leggiadra, decisamente matta e fondamentale, anche se un po’ complicata dalla necessità di inclinare l’analogico in diagonale (che è un problema soprattutto coi Joy-Con, che tutto sono tranne che arcade stick), mentre tutto intorno sibilano proiettili, volano elicotteri ed esplodono granate (anche se dal punto di vista del giocatore sgamato è più facile vedere esplodere elicotteri e volare granate).
È infatti anche un gioco che ha gran gusto per la scenografia, tutt’oggi. Il primo livello è fantastico, una sparatoria tiratissima su una chiatta che naviga il Mekong, cielo tempestoso, riva sotto tiro e la prospettiva che dà profondità all’azione rendendo tutto leggibile ma mai prevedibile; uno di quegli stage da giocare e rigiocare, capace di definire un videogioco. Ogni missione è introdotta da un breve dialogo e riesce nell’intento non banale di creare un climax anche interessante, con alcune sequenze pazzesche, tipo il livello a bordo dell’aereo, che mi ha fatto esplodere il cervello. C’è poi sempre quel tocco di fantascienza che contribuisce a creare un’atmosfera grottesca e sfocata rispetto alla realtà, soprattutto quando entrano in scena boss imponenti e mangia-gettoni in maniera infame, tra mecha-ruspe, camion spara-gas nervino e un finale che avrebbe potuto tranquillamente essere quello di un Metal Gear per MSX, o anche di Metal Slug. E in effetti la serie Nazca qualche debito verso NAM-1975 ce l’ha, dal sistema di punteggio alla gestione delle armi speciali, dall’estetica alle animazioni alla possibilità di salvare ragazze tenute in ostaggio (che sembrano scese dal sedile passeggero di Out Run) per farci aiutare fino, appunto, ai boss, il tutto declinato in uno stile ancora più umoristico/satirico e tecnicamente fuori di testa. Ma se Metal Slug non ci ha mai provato, ad essere un gioco serioso, NAM-1975 secondo me un po’ ci credeva, buttando qualche battuta drammatica qua e là e utilizzando scenari tendenzialmente cupi e devastati, citando (più o meno velatamente) Apocalypse Now e Full Metal Jacket ma risultando (soprattutto giocato oggi) più un Tropic Thunder, una parodia arcade del Vietnam che diventa sfoggio ludico di una muscolarità militare idealizzata in anni di intrattenimento made in U.S.A. Oggi, forse, un approccio così superficiale all’argomento fa più impressione e mentre giocavo (e ne godevo) mi è capitato di chiedermi se questo tipo di rappresentazione non fosse, in una certa misura, irrispettoso di uno fra i conflitti più sanguinosi e controversi della Storia recente. NAM-1975 fa sicuramente parte di una mitizzazione che l’argomento ha subito nei decenni successivi, con le versioni fittizie dei fatti che hanno sostituito man mano quelle storiche, soprattutto nell’immaginario delle generazioni post-‘75 (cosa che invece non succede per la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, o almeno non ho quella percezione).
Il ‘nam qui è solo uno sfondo pop, un contesto, una parola tronca su un argomento mai affrontato perché la sala giochi non era il luogo per farlo (neanche tecnicamente), preferendo dare il ruolo di protagonista al gameplay, immediato e fragoroso, utilizzando la Storia come scintilla per trasformare il giocatore in eroe d’azione, innocuo, al sicuro.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.