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La sfida impossibile di Panzer Dragoon | Post Mortem

La sfida impossibile di Panzer Dragoon | Post Mortem

Post Mortem è una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori sull’esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.

Nel lontano 1993, Yukio Futatsugi lavorava in Sega da un paio d’anni e gli venne chiesto se, per il suo progetto successivo, da inserire nella lineup di lancio del Saturn, avrebbe preferito lavorare su un gioco di guida o uno sparatutto. Il suo primo istinto fu di lanciarsi su un racing game ma, proprio in quel momento, Sega avviò la produzione di Gale Racer e quindi Futatsugi ripiegò sul genere degli sparatutto. Da lì nacqui il progetto di Panzer Dragoon, un gioco che riuscì a sviluppare in tempo per il lancio della console e che fu presente anche al momento del famigerato lancio a sorpresa anticipato in America. Alla Game Developers Conference 2019, Futatsugi, game designer e director, e Kentaro Yoshida, art director, hanno raccontato l'avventura che fu assemblare quel gioco e i suoi due seguiti. Erano gli anni in cui stava per esplodere il 3D anche in ambito casalingo e inevitabilmente il progetto si configurò come quello di uno sparatutto tridimensionale. Ma come metterlo in piedi? A Futatsugi venne consigliato di dare un'occhiata a Virtua Fighter, sviluppato sempre in Sega da AM2, e fu amore al primo sguardo. Quella era la strada da seguire.

C'era però da lavorare sullo stile, sulle idee, sul mondo. L'idea di lanciarsi sui draghi come "veicoli" nacque per il desiderio di distinguersi rispetto al classico sparatutto fantascientifico, tipicamente basato su astronavi spigolose, meccaniche, tecnologiche. E in realtà, inizialmente, l'idea era di spingere ancora di più su un'ambientazione completamente fantasy. Ma ovviamente, la fase di pre-produzione fu proprio in generale un gran cumulo di idee, inversioni a U, deviazioni di rotta. Ci volle del tempo per definire sul serio il mondo di gioco, l'ambientazione, la storia, ma anche il gameplay. Nel progetto iniziale, per esempio, mancava ancora l'idea del sistema di mira basato sul laser a ricerca. Fu introdotta solo quando, dopo aver messo le mani su un primo prototipo, il team si rese conto che sparare mentre ci si muoveva negli ambienti 3D era piuttosto difficile. Del resto, si torna al punto di partenza, bisogna ricordarsi che stiamo parlando di un'epoca in cui il videogioco tridimensionale, soprattutto in ambito console, era ancora agli albori, i controller non nascevano con i poligoni in testa e le regole erano ancora tutte da stabilire.

Un’importante fonte d’ispirazione per Futatsugi fu Starblade, lo sparatutto poligonale su binari prodotto da Namco. In particolare, a colpirlo, furono la rappresentazione molto cinematografica, che ricordava Star Wars, e alcune scelte particolari, come la totale assenza di musiche nei livelli, coi temi d’accompagnamento che entravano in gioco solo durante gli scontri coi boss. Quella era decisamente una strada da seguire, anche perché diede vita a tutta una serie di scelte che Futatsugi riteneva molto intriganti: era possibile raccontare una storia unica, con un ritmo ben dosato dall’inizio alla fine; si creava un contesto in cui inserire cutscene poligonali che portassero avanti il racconto; diventava possibile legare la colonna sonora al ritmo del gioco, accompagnando momenti specifici come in un film, senza ricorrere ai temi fatti ascoltare in loop.

Fu insomma molto importante l’ispirazione all’ambito cinematografico (ma non solo: il duo cita anche il lavoro di Katsuhiro Otomo), chiaramente anche nella creazione del mondo di gioco. Proprio come si faceva su film come Dune, Star Wars o Le ali di Honneamise, il team fece un enorme lavoro di pre-produzione studiando gli ambienti, il mondo, creando una vera e propria cultura per gli esseri che lo popolavano, disegnando personaggi e paesaggi tramite l’art director Manabu Kusuoki. La mitologia nacque con l’idea dell’età antica, la “ancient age”, e fu quello il nucleo da cui tutto venne sviluppato, cercando di mantenere una coerenza di fondo. C’era quindi una civiltà molto avanzata, vissuta in un passato lontano, che usava una tecnologia assai moderna, basata su materiali come la ceramica e il metallo. Ma quella civiltà era stata spazzata via e Panzer Dragoon era ambientato in una nuova epoca, con un impero nato sulle ceneri del mondo.

In termini di design, si cercò di mescolare antico e moderno, realismo e fantasia, per esempio pescando dalle tecnologie della Prima Guerra Mondiale e integrandole con il design fantastico dell'era antica inventata per l'occasione. E ovviamente fu fondamentale il lavoro sui dragoni, pensati come vere e proprie armi organiche sfruttate nell'era antica e sopravvissute in quella moderna. Venne posta grande attenzione sull'utilizzo delle silhouette e di immagini che sapessero rendere il senso di scala, la differenza di dimensione fra queste creature e gli esseri umani, e si adottò un semplice accorgimento per distinguere fra i dragoni: quelli sopravvissuti dall'epoca antica avrebbero indossato delle armature bianche, come le persone del periodo, quelli nati poi, no. Riguardo al mondo in generale, fu molto importante, anche e soprattutto per lo sviluppo successivo dell'estetica di Panzer Dragoon Zwei e Panzer Dragoon Saga, l'idea di un pianeta devastato dalla guerra e reclamato dalla natura.

Insomma, venne fatto un lavoro di preproduzione pazzesco e fu possibile dedicarvisi anche perché ebbero un paio di mesi extra a disposizione, a causa dei ritardi nella produzione dei kit di sviluppo per Saturn. Fu un dono dal cielo, perché permise al team di modellare il mondo a dovere e, per esempio, fu in quel periodo che si inventarono la lingua parlata dai personaggi. Sempre in quel periodo, però, si manifestò anche lo spauracchio: Sony era al lavoro su PlayStation, che sarebbe giunta sul mercato più o meno in contemporanea con Saturn e, ormai era cosa nota, pareva proprio che sarebbe stata più potente sul fronte della grafica tridimensionale. Questa cosa dava parecchio fastidio e anche per questo il team si impegno a studiare un modo per valorizzare i punti di forza della console Sega.

Il Saturn era infatti molto potente e versatile sul fronte della grafica 2D e dello scrolling e per questo si decise di sviluppare Panzer Dragoon sfruttando questa caratteristica, nonostante si trattasse di un gioco con grafica 3D. Come fare? Puntando sulle dimensioni dello spazio di gioco, l’estensione, l’immensità dei luoghi visibili a schermo: ogni singolo livello di Panzer Dragoon venne pensato per mostrare paesaggi infiniti, utilizzando ambienti oceanici, desertici, e sfruttando le capacità di scrolling della console per visualizzarli. Su Saturn, puntualizza Futatsugi, la grafica 3D si assemblava utilizzando i “transformed sprite”: in pratica, ogni poligono era uno sprite, con texture individuali che si deformavano. Una roba che oggi sarebbe folle. Il team sviluppò uno strumento di texture splitting per gestire il texture mapping e dovette girare attorno ai limiti della console, che aveva poche funzioni di traslucenza e interazione fra poligoni, ma alla fine riuscì a tirar fuori un gioco dall’estetica unica, che funzionava e, pur non essendo all’apice tecnologico, era effettivamente impossibile da ottenere su PlayStation.

«Funzionò. Non lo rifarei mai, ma funzionò.»

Futatsugi ricorda di essere andato alla presentazione di PlayStation assieme al suo programmatore. Videro in azione Ridge Racer e rimasero sconvolti. Non avevano scampo! Ancora oggi, confessa di essere traumatizzato e di essersi fatto prendere dal nervoso ogni volta che ha visto apparire in TV la pubblicità di PlayStation Classic.

Dopo l’uscita di Panzer Dragoon, vennero messi in cantiere due seguiti molto diversi. Panzer Dragoon Zwei sarebbe stato un sequel diretto, basato su sistemi simili, Panzer Dragoon Saga avrebbe puntato tutto sul world building e sullo sviluppo dei personaggi. Lo studio venne diviso in due team per portare avanti lo sviluppo in parallelo, con Yukio Futatsugi al lavoro su Saga e Kentaro Yoshida su Zwei. Anche nello sviluppo di quest’ultimo, che pure doveva essere il seguito più conservativo, si cerco di introdurre qualche innovazione. Ma non fu semplice. Il problema era il concetto di base: Panzer Dragoon mescolava uno sparatutto 3D, in cui controlli il personaggio, con uno sparatutto per pistola ottica, in cui non controlli il movimento. Non fu semplice trovare l’equilibrio giusto e fu complesso mettere tutti d’accordo, soprattutto gli sviluppatori veterani. Per il seguito, c’era l’idea di provare ad aumentare la rigiocabilità, evitando però la soluzione semplice adottata nel primo episodio, che “allungarono” semplicemente tarando verso l’alto la difficoltà (cosa per altro non apprezzata da molti giocatori).

La soluzione? Introdurre dei percorsi ramificati, con la possibilità di seguire vie differenti e invogliare quindi alla rigiocabilità, per scoprire tutto ciò che il gioco aveva da mostrare. Inoltre, si lavorò maggiormente sulla storia, per dare maggiore profondità, e si fece un grosso sforzo per potenziare ulteriormente la sensazione di stare volando. Come? Aggiungendo i livelli ambientati a terra, in modo da creare un contrasto. Non fu però semplice, perché, come detto, il terreno veniva creato utilizzando lo scrolling del Saturn, che prevedeva un solo livello. Come mostrare, quindi, le diverse altitudini? Sostanzialmente, giocando col montaggio, come quando si nascondono gli stacchi in un piano sequenza: il cambio di altitudine, e quindi di livello dello scrolling, si verifica sempre in corrispondenza di angoli e curve. Tra l’altro, si fece anche un gran lavoro sulle animazioni, che nel primo episodio erano state create interamente a mano ma nel secondo si appoggiarono su dei calcoli che resero le ali molto più fluide e credibili. E si prese anche di petto la questione del livello di difficoltà, introducendo l’Automatic Difficult Enemy Control system: in pratica, il gioco tiene conto della percentuale di nemici che uccidi e della velocità a cui lo fai, regolando la difficoltà del segmento successivo (il numero di nemici e di proiettili che sparano) in base a quel calcolo. Inoltre, c’erano sei livelli di difficoltà, che applicavano moltiplicatori diversi al punteggio. Considerando che stiamo parlando di vent’anni fa, era un sistema molto avanzato e innovativo.

«Se mi chiedete quale gioco mi abbia fatto più soffrire in venticinque anni di carriera, è nettamente Panzer Dragoon Saga». Il problema, spiega Futatsugi, è che era un gioco troppo ambizioso, in cui provarono letteralmente a fare troppe cose. Dopo un anno dall’inizio dei lavori, il team venne ampliato e si trovarono ad assemblare un documento di design enorme per spiegare ai nuovi cosa volevano fare. L’idea di partenza? Sviluppare un gioco di ruolo interamente tridimensionale. Ma anche trasformare Panzer Dragoon in un RPG, quindi prendere un gioco che “simulava” l’esperienza di un film in tre dimensioni e trasformarlo in un GdR. E stiamo parlando di un periodo in cui lo standard, perlomeno su console, era di piazzare personaggi poligonali su fondali prerenderizzati, come in Resident Evil. Ma no, loro volevano fare tutto in 3D. E farci dentro un film. E volevano dei combattimenti da RPG sotto forma di sparatutto 3D. «Eravamo pazzi.»

Proseguirono per un anno intero facendo test e creando prototipi senza andare da nessuna parte. Un buon punto di svolta, però, fu il cambio di responsabile per il sistema di combattimento: ingaggiarono Akihiko Mukaiyama, che in seguito avrebbe diretto Panzer Dragoon Orta. Ma l’impresa rimaneva enorme. Nel primo Panzer Dragoon, avevano uno sparatutto lineare con un singolo personaggio. Ora volevano un drago capace di cambiare aspetto in tempo reale e un sistema di combattimento che permettesse di combattere utilizzando il drago e il giocatore, sfruttando armi e magie… il tutto con un sistema di movimento libero, esplorazione senza confini, città da frequentare e lo scorrere del tempo, con alternarsi di giorno e notte. Altro? No?

Chiaramente, questo aumento di complessità comportava una riduzione di qualità grafica ed è per smussare l’incidenza della cosa che si decise di implementare una mappa “generale”, in cui si decideva dove andare e poi, nelle singole ambientazioni, il mondo libero da esplorare. Similmente, i tunnel che collegano le sezioni della città vennero inseriti per nascondere i caricamenti, resi necessari dai limiti hardware. Inoltre, pur inseguendo il fascino di esplorare liberamente spazi enormi, dovettero ideare sistemi che snellissero il movimento per compensare la, diciamocelo, noia di andare in giro per quegli spazi sì enormi, ma vuoti. Insomma, stiamo parlando di un’epoca in cui gli standard del videogioco tridimensionale erano ancora da definire, tante cose che oggi diamo per scontate non lo erano e dovettero procedere un po’ a braccio.

Panzer Dragoon Saga, fra l’altro, fu interamente doppiato da attori, con tanto di cutscene in grafica tridimensionale. All’epoca, era raro effettuare il motion capture ottico, quindi utilizzarono quello magnetico, che però comportava grossi fastidi: tutto ciò che emetteva magnetismo veniva rilevato dal sistema e diventava rumore video, che doveva essere poi eliminato a mano. Ci fu inoltre un discreto sfoggio d’arte dell’arrangiarsi. Ad esempio, per simulare i draghi nelle fasi di motion capture, ammassavano delle casse di birra su cui l’attore si metteva a cavalcioni, mentre una seconda persona teneva tutto in piedi a mano, per evitare che il “drago” crollasse.

Insomma, fu un impresa. Dovettero imparare a gestire un nuovo hardware, veicolare il desiderio di esplorare nuovi territori, coordinare uno staff più ampio e ricco di talento, scoprire come fare un sacco di cose mai fatte prima, darsi da fare in ambiti in cui non erano specializzati… ma erano giovani e vigorosi, ricorda Futatsugi. Fu stancante, ci furono conflitti, il gioco costò tantissimo, lui non aveva la minima esperienza nel gestire un team da cinquanta persone e mancava proprio la struttura, l’organizzazione. «Non avevamo nemmeno un sistema di ticketing!» Addirittura, al termine dei lavori, il team venne smantellato, perché la produzione era davvero costata troppo. Ma ce l’avevano fatta, avevano completato il progetto. Oggi, spiega uno Yukio Futatsugi che va per i cinquanta, non vorrebbe ripetere l’esperienza, ma all’epoca era giovane e ambizioso.

Una descrizione del team che si occupò di Panzer Dragoon Saga? Sta tutta nella canzone aziendale di Sega, il cui titolo si potrebbe tradurre con Energia giovanile.

Al termine del racconto, i due hanno anche risposto ad alcune domande del pubblico. È vero, per esempio, che il codice sorgente e gli asset di Panzer Dragoon Saga sono andati perduti? Vai a sapere. Immediatamente dopo il completamento dei lavori, sfiniti, i due se ne andarono da Sega, quindi non hanno informazioni al riguardo. C’è qualcosa di particolare a cui dovettero rinunciare durante lo sviluppo di Panzer Dragoon? Dimensioni e contenuti: dovettero tagliare tantissimo. Per dirne una, non è normale che l’ultimo livello non abbia un boss, lo si completi e si passi poi al boss finale del gioco. Era prevista una battaglia in più ma non ebbero il tempo di inserirla. Ancora spigolature? I programmatori del gioco arrivavano tutti dal settore arcade e non volevano sentire ragioni: per loro, il gioco doveva girare a 60 fps. Alla fine, però, le priorità divennero chiaramente altre e dovettero accontentarsi di 30. Poco male. Infine, in Panzer Dragoon Saga avrebbero voluto inserire più di una città e volevano fare in modo che la città presente si evolvesse nel tempo. Ma non ci riuscirono.

Ah, un’ultima cosa: da dove arriva l’ispirazione per Panzer Dragoon Saga? Da nessuna parte. «Forse è proprio perché non copiammo nessuno che il progetto ci sfuggì di mano e divenne incontrollabile», ha detto Futatsugi. «Però, mi piace pensare d’essere stato d’ispirazione per altri.»

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Il trono di spade e al fantasy lercio, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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