Portal 2: dieci anni di suoni inconsulti | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
L’altro giorno stavo guardando la mia libreria di giochi per Playstation 4 e PlayStation 5 (maledetto, Nd Peduz) in cerca di qualcosa di stuzzicante che mi fossi dimenticato di finire o addirittura di giocare; secondo la console ho accumulato, tra acquisti, “regali” di PS Plus e altre amenità, quattrocentoventisei titoli. Non ho idea di quanti siano stati quelli per PlayStation 3, o quelli per tutte le console Nintendo che ho avuto in vita mia, e non parliamo di PC, se considerate che sono cresciuto in piena era shareware e quando arrivarono i primi lettori CD riuscii a mettere le mani su un CD intitolato “100 giochi per DOS e Windows” che da solo occupò svariati mesi della mia esistenza. So che il totale è: tanti, tantissimissimi giochi.
Ancora oggi se mi chiedete quale sia il gioco più bello a cui abbia mai giocato il pensiero corre automaticamente a Portal 2.
È possibile che questa convinzione si sia cristallizzata con gli anni e che per questo motivo anche giochi migliori non siano riusciti a scalzare Portal 2 da quel posto nel mio cuore. È possibile che ormai lo ripeta quasi per principio, come a dire “ho trovato l’apice di tutto quanto, non ho voglia di continuare a cercare”. Ed è possibile che ragionandoci meglio possa cambiare idea, e decidere di puntare su un altro titolo, che ne so, Dark Souls per dire.
Rimane il fatto che quando penso a Portal 2 il mio cervello forma automaticamente le parole “miglior gioco di sempre” e io non ci posso fare nulla.
Nel 2011, l’anno di uscita del sequel di quel gioco che parlava di portali e torte, Dear Esther era già uscito, e con lui le prime discussioni a riguardo dei c.d. “walking simulator” e sul loro status di videogiochi o meno. Mi è sempre sembrata una discussione un po’ sciocca (certo che sono videogiochi, come lo è anche Candy Crush e come lo era anche Farmville), e ho sempre visto Portal 2 come una sorta di sintesi tra le istanze di chi vuole che i videogiochi lo mettano alla prova e abbiano i Sistemi e chi invece pensa che il mezzo videoludico abbia potenzialità espressive che si possono sfruttare anche senza game-ificare completamente l’esperienza.
Portal 2 è, per lunghi tratti, un walking simulator, o quantomeno funziona come tale. Quando non si comporta così, è distillato di videogioco, e per la precisione distillato di sequel: come il predecessore, ma più grosso, più complesso, più stimolante. La sapete la storia di Portal, no? C’è una roba della scienza che fa gli esperimenti mortali sulla gente, e c’è una di queste cavie che riesce a sfuggire dal laboratorio e dalle grinfie della cattivissima intelligenza artificiale che gestisce gli esperimenti. Portal 2 comincia parecchi anni dopo, con Chell che si risveglia da un lunghissimo criosonno e scopre che il laboratorio gestito da Aperture Science è ormai in rovina e l’edificio è sul punto di collassare. Portal metteva i puzzle al centro non solo dell’esperienza di gioco ma anche di quella narrativa, non erano neanche puzzle, chiamiamoli così, diegetici, ma il motivo stesso per cui esisteva tutto quanto; in Portal 2, invece, lo scopo del viaggio è scoprire cos’è successo.
Detto altrimenti: Portal era un gioco basato sul mistero, e un editoriale neanche tanto nascosto su certi meta-argomenti tipo la tendenza di chi videogioca a obbedire agli ordini senza farsi troppe domande (lo stesso discorso fatto, in un contesto completamente diverso, anche da Bioshock); mentre ci giocavi non sapevi cosa ti aspettasse, solo che una voce ti chiedeva di risolvere enigmi e tu lo facevi, spinto dalla compulsione a trovare soluzioni e dalla curiosità di capire dove stesse andando a parare tutto quanto. Portal 2 invece è un’opera di archeologia, un viaggio nelle viscere della compagnia che ti ha messo in quella situazione di merda per scoprire come mai non esista più, come mai sia tutto in rovina, e come abbiano fatto a dimenticarsi di te. È sempre un mistero, ma un tipo completamente diverso di mistero: è un’indagine su cose già successe, non su cose che dovranno succedere.
E quindi per lunghi minuti non si fa altro che camminare, in Portal 2, tra le rovine invase dalla vegetazione dei laboratori pazzi della Aperture Science. Camminare e ascoltare la voce di JK Simmons che magnifica il progresso e parla di limoni e limonate, e scoprire tutte le chicche di narrazione ambientale che Valve ha disseminato per il complesso. E anche risolvere enigmi e stanze pazze della morte, certo: se dovessi sforzarmi di trovare un difetto a Portal, che come insegna la scienza è un gioco senza difetti, è che finisce un bel po’ prima di aver spremuto tutto il possibile da quest’idea dei portali blu e arancione, e quindi Portal 2 saggiamente riprende da dove il discorso si era interrotto, propone nuove e più stimolanti variazioni sul tema, ripropone vestiti a festa vecchi enigmi per solleticare la nostalgia ma anche per incitare al confronto con le nuove scintillanti idee, introduce ulteriori strumenti per complicare le cose senza mai sfociare nel casino incomprensibile (gli spray)... voglio dire che le stanze di Portal 2 sono la naturale evoluzione di quelle di Portal, e quindi ovviamente sono magnifiche, perfette, intoccabili.
Non credo sia possibile mettere in discussione Portal 2 dal punto di vista del puro gameplay e di tutte le sue simpatiche sottocategorie tipo la sempre sfuggente “curva di difficoltà”. Immaginate un segmento di retta graduato da -10 a +10 che rappresenta il modo di approcciare l’idea di puzzle in un videogioco. A un estremo, diciamo il -10 per convenzione, ci sta una roba tipo, che ne so, Super Meat Boy: ogni stanza è un’enigma da risolvere, nella quale identificare i punti dove bisogna saltare, quelli dove bisogna correre et cetera; risolvere l’enigma su carta è facile, la difficoltà sta tutta nell’esecuzione pura. All’estremo opposto, il +10, sta per esempio The Witness: i puzzle stanno lì, fermi immobili, il mondo intero è perfettamente statico finché non sei tu a interagirci; e la difficoltà sta nel capire come risolvere l’enigma, non nell’esecuzione della soluzione.
Portal 2 sta esattamente nel mezzo, nel punto zero, l’ideale incontro tra i, chiamiamoli così, puzzle d’azione e puzzle di ragionamento (o di raffigurazione, mi piace questa parola). Bisogna capire cosa fare, e bisogna saperlo eseguire senza sbagliare: c’è un po’ di sfida per chiunque, sia chi con la propria superintelligenza riesce a leggere al volo una stanza ma poi ha i riflessi di un bradipo e si deve concentrare per azzeccare i salti, sia chi ha bisogno di una guida illustrata per allacciarsi i pantaloni ma ti sa completare Ghosts ‘n’ Goblins con un solo gettone e una benda sugli occhi.
Ah, e poi ovviamente fa ridere, cioè: Portal 2 nasce prima di tutto con l’intenzione di essere una commedia videoludica, e il fatto che ancora oggi il 99,8% di chi ci ha giocato non riesca a trattenere le risate alla vista di una patata (fonte: FAO) dimostra che Erik Wolpaw e Jay Pinkerton sono riusciti nel loro intento. Anche qui, immagino che ogni singola persona che ha giocato a Portal 2 abbia il suo momento o i suoi momenti preferiti; a me piace ricordare quando sul finale cominciai a ululare ed emettere suoni inconsulti, e come questa cosa non sia ancora passata, con grande scorno di chi mi sta intorno e anche del cassiere del mio supermercato che ormai mi conosce come “signor AAASSSDADDDAAFGFGFGFHAGGRAARGHRARGH”. Dieci anni di suoni inconsulti sono tanti, tantissimi, e Portal 2 se li merita tutti.
(se a questo punto vi aspettavate qualcosa anche sulla consistente e fondamentale porzione multiplayer del gioco, mi duole informarvi che ci rimarrete male: non l’ho mai neanche sfiorata. Chiedete al Maderna un altro pezzo integrativo se ne avete il coraggio)