Outcazzari

Previously on Lost

Previously on Lost

Nei salotti buoni, tendo sempre a spacciarmi per un fan accanito di Lost. E un po’ faccio male, perché mentre buona parte del mondo civilizzato era raccolta attorno alla prima stagione, diciamo tra il 2004 e il 2005, io attraversavo un momento difficile con Elisa di Rivombrosa. In effetti, al tempo dei primi spot sulla RAI, credevo addirittura che quella di J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber non fosse nemmeno una serie TV, ma una sorta di reality per survivalisti, o qualcosa del genere.

Quando finalmente lo attaccai, Lost veleggiava già verso la seconda stagione. «Giusto qualche puntata per fare conversazione», e nel giro di mezz’ora stavo già in fissa brutta con i misteri dell’isola. A pensarci oggi, a bocce ferme, era scontato che ci finissi con tutte le scarpe: al di là che adoro le cose che non vanno dritte al punto, ero e rimango totalmente in linea con quello che mi pare il target centrale della serie ABC. Un target composto grossomodo da gente nata tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quindi sparpagliata all’epoca tra i venti e i trent’anni, passata per un percorso di formazione mediamente nerd a base di videogiochi, fumetti e film d’avventura di area “amblinesque”. Parliamo di persone disposte a non perdersi nemmeno una puntata e a tenere meticolosamente traccia di tutti gli indizi lasciati in giro dagli autori, oltre che sufficientemente a proprio agio con internet da intasare di teorie forum, blog e in generale tutti quegli spazi di chiacchiera che esistevano prima che Zuck ci schedasse tutti.

Zuck?

Con questo non voglio certo far passare Lost per una serie di nicchia, anzi. Il suo largo, larghissimo successo, era il frutto della moltitudine di codici e situazioni narrative di cui gli autori la farcivano, cosa che ha finito anche per non lasciarla mai (troppo) ferma. A farci caso, il Lost di Abrams è piuttosto diverso da quello delle ultime stagioni uscite dalla writer room di Lindelof e Carlton Cuse. Più drammatico e complottaro il primo, in stile Alias; decisamente più fantascientifico e nerd il secondo. A volerla buttare in caciara, è possibile tracciare uno spartiacque attorno alla terza stagione, la più prolissa e zoppa, nonché l’ultima rimasta ancorata allo standard delle venti e rotte puntate.

Poi, OK, a tenere di conto, le costanti superano le differenze. All’uscita, Lost è stato probabilmente il primo fenomeno popolare grosso del post undici settembre, nonché quello che è riuscito a intercettare meglio il clima di tensione di quel periodo incasinato. Voglio dire, in fondo, la serie attacca con un aereo che precipita e uno dei suoi protagonisti, l’ex militare iracheno Sayid Jarrah, viene frainteso per terrorista in diverse occasioni. Più in generale, Lost parla di controllo, incertezza e paura dell’ignoto; di misteriose organizzazioni che agiscono nell’ombra manipolando la realtà a proprio favore.

Seppure lavorando di simboli e metafore (o, forse, proprio per quello) la serie ABC è riuscita a tematizzare l’attacco alle Torri Gemelle meglio del cinema, che raramente ha saputo sciogliersi oltre i cliché del genere o l’agiografia del pompiere-eroe. Non è un caso se lo stesso Cloverfield, che nel suo found footage fuori tempo massimo non fa che rimediare le riprese amatoriali strappate agli attacchi, nasca proprio in seno all’entourage di Abrams.

Easter egg della Dharma Initiative in Cloverfield, tanto per ricordarci qual è il vero universo narrativo di riferimento di quei film lì.

Comunque, laddove il cinema era impicciato da questioni produttive, di pudore o che ne so, sono arrivate le serie TV e hanno approfittato di quel momento d’euforia per scrollarsi di dosso le narrazione verticale o semi-verticale normalmente appalto di soap e sceneggiati. Inoltre, visto che la regia di una serie viene solitamente distribuita tra diverse maestranze, le firme che contano sono progressivamente diventate quelle di showrunner e sceneggiatori (anche se qui c’è di mezzo pure lo sciopero della Writers Guild of America, iniziato nel novembre del 2007 e conclusosi nel febbraio del 2008 con un accordo a favore della categoria).

Dietro, a destra, il portavoce degli sceneggiatori.

In seno al successo di Lost, nel giro di sei mesi, forse meno, le serie TV hanno preso a moltiplicarsi come conigli, al punto che non c’era veramente il tempo di star dietro a tutto. Dalle nostre parti ne venivano distribuite solo alcune, ma dove non arrivava il mercato regolare, era tutto un fiorire di sottotitoli amatoriali e portali ad hoc. Premesso che la pirateria è sempre una roba spigolosa, da tutta la faccenda emersero degli effetti collaterali perlomeno interessanti.

Ad esempio, dopo decenni di “doppiaggio migliore del mondo”, gli italiani presero l’abitudine di seguire le serie – e magari i film - in lingua originale, mentre l’agilità con cui era possibile procurarsi video e sottotitoli a distanza di poche ora dalla messa in onda USA spinse distributori come Sky ad adoperarsi per accorciare le distanze.

Tornando a Lost, mentre le prime tre stagioni furono distribuite in Italia circa sei mesi dopo l’uscita, a partire dalla quarta lo scarto si ridusse, mentre con la sesta si arrivò alla visione simultanea in lingua originale, con la versione doppiata in italiano pronta una settimana dopo (abitudine poi ereditata da Il trono di spade e Westworld). Oggi, anche in via dell’arrivo di Netflix, Prime Video e compagnia, l’idea di accedere a un contenuto con mesi di ritardo rispetto agli Stati Uniti sarebbe ragione sufficiente perlomeno a comprometterlo (prendi The Mandalorian), ma fino al Duemila-e-qualcosa, la prassi per i canali generalisti e a pagamento era questa.

Ma si diceva delle serie TV che spuntavano come funghi. Quando Lost è iniziato, nel 2004, girava ancora il modello dei ventiquattro episodi a stagione, mandati in onda dall’autunno fino alla primavera successiva e adoperati soprattutto come vetrine a nolo per le agenzie pubblicitarie. In via di questo, anche una serie scritta da nerd come Abrams e compagni doveva poggiare su un linguaggio che fosse il più popolare possibile e proporre più livelli narrativi per far contenti tutti. Così, tra il pubblico c’era chi si appassionava al triangolo amoroso tra Jack, Kate e Sawyer, chi voleva solo godersi un po’ di avventura e qualche scazzottata e chi invece stava in fissa con la mitologia e scaricava le proprie teorie su forum (prima) e social network (poi). Senza contare che Lost, a modo suo, fu anche uno dei primi vettori televisivi di quel feticismo per la nostalgia che ha fatto la fortuna di Stranger Things. Tra viaggi nel tempo, flashback e citazioni, gli isolani sguazzano in un immaginario sospeso tra gli anni Settanta e Ottanta, come testimonia il look delle varie stazioni della Dharma.

Il famoso computer della stazione Cigno è un mix tra un Apple II Plus e un Apple III, usciti rispettivamente nel 1979 e nel 1980.

Le cose, tuttavia, andarono progressivamente cambiando. La moltiplicazione dell’offerta portò alla frammentazione del target, mentre il modello dei ventiquattro episodi, divenuto sempre più insostenibile, portò alla chiusura di molte serie promettenti ma troppo ambiziose (tipo le povere Kings e Rubicon). I produttori iniziarono a scommettere su cicli più brevi e, a partire dalla quarta stagione, anche Lost ridusse le puntate in un terzo, guadagnando in coesione ma diventando un filo più intransigente a livello di contenuti (sempre nel contesto di un’opera popolare, eh). Iniziarono anche gli esperimenti extratestuali, tra corti su YouTube e augmented reality game a favore dei più fissati. Il più famoso fu senz’altro The Lost Experience, una sorta di caccia al tesoro da praticare sia online che in presenza, aperta durante l’estate del 2006 tra la seconda e la terza stagione. Seguendo gli indizi, era possibile accedere in anteprima a tutta una serie di informazioni e video cruciali per decifrare la mitologia della serie.

Uno degli indizi della "Lost Experience".

Oggi che il mondo delle serie TV è cambiato ancora, è impossibile non guardare a Lost come all’opera che ha svecchiato un po’ di cose o che ha portato a piena maturazione alcune delle formule abbozzate da altri durante il decennio che l’ha preceduta. Questo a prescindere che lo si ami alla follia o che stia sul cazzo.

A riguardarlo oggi, a dieci anni dalla messa in onda dell’ultima puntata, viene sicuramente meno il fascino dell’esperienza collettiva. Molte cose sono invecchiate, soprattutto in termini di linguaggio, e tutti quei compromessi che all’epoca passavano quasi inosservati nel mare magnum di cose fighe sono diventati abbastanza vistosi. Eppure, se lo chiedete a me, nel complesso il baraccone regge ancora bene, soprattutto all’inizio e dopo aver scollinato la terza stagione. Se non lo avete mai visto, potreste dargli una chance proprio durante questi giorni strani di chiusura, se non altro per prendere lezioni di sopravvivenza da Desmond.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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