Fuga da Alcatraz, fuga dalle regole
Quella di Frank Morris, nato il primo settembre ’26 e sparito nel nulla l’11 giugno ’62 nella Baia di San Francisco è la storia di una fuga che profuma di escapismo, quello “magico” e impossibile che rese leggendario Harry Houdini, che il caso ha voluto lasciasse il mondo terreno proprio nel 1926. “Se c’è qualcuno che può davvero fuggire dall’aldilà, quello sono io” aveva detto l’illusionista, ed è affascinante pensare che ci sia riuscito, nascondendosi poi nell’animo ancora puro, come una tela bianca, di un Morris neonato. Perché quello che successe sull’isola-penitenziario ha i contorni del numero finale da spettacolo di magia, quello che vale la serata, inspiegabile ai limiti del mistico, capace di annullare ogni certezza anche nella più pragmatica delle menti.
“Benvenuto ad Alcatràz” (con l’accento sulla A, come doppiaggio italiano vuole).
Due anni di preparazione per sconfiggere la prigione più sicura al mondo, quella da cui è impossibile evadere (e anche se per puro caso si riuscisse a superare quel maledetto muro, le correnti del Pacifico farebbero il lavoro dei cecchini), analizzata millimetro dopo millimetro da un rapinatore, truffatore, spacciatore e fuggiasco benedetto da un QI di 133, abbandonato dai genitori e cresciuto in orfanotrofio dagli undici anni per poi iniziare a saggiare il ferro delle sbarre dai tredici. Alcatraz è solo una formula matematica da risolvere, una prova d’intelletto, un’altra regola (dello Stato) da infrangere, l’ennesimo indizio che anche i muri più alti non possono arginare il desiderio di libertà di un essere umano, che si inventerà sempre nuove traiettorie per aggirarli. Don Siegel si “limita” ad unire i puntini, gli highlight di una fuga da Alcatraz tutt’altro che rocambolesca e disperata ma meticolosa e chirurgica, piegando l’ambiente e fottendo chi era stato messo lì per sorvegliare e assicurare l’inviolabilità, da dentro verso fuori, di questo “gioiello” dell’amministrazione statunitense. Clint Eastwood è lì per mangiarsi la scena, con quello sguardo sempre avanti di un chilometro rispetto agli altri, superiore e provocatorio, accentrando ire e simpatie di un intero blocco; eroe anti-sistema che, nel suo essere soggetto assolutamente pericoloso da lasciare in libertà, dimostra un senso di giustizia sorprendente. Volontà ferrea, mai piegato né in doccia (come tradizione carceraria hollywoodiana vuole) né da condizioni di vita estreme e trattamenti disumani, che l’isolamento del complesso dal resto del mondo occultava e giustificava, senza prevedere alcuna riabilitazione ma solo patimento.
Per Morris evadere significa far vincere l’ingegno sulla forza bruta (pur dimostrando lui stesso un’indole da boxeur assolutamente temibile), una persona capace di vedere chi lo circonda come fosse trasparente, affascinando gli altri e portandoli dalla sua parte. Fuggire da Alcatraz è un lavoro di cesello, un tagliaunghie usato per scavare nei muri della cella, ormai quasi sciolti dall’aria salmastra della baia, l’abilità nel modellare la carta pesta come neanche Giovanni Muciaccia, per creare doppelgänger da infilare nel letto e non destare i sospetti delle guardie, con Morris a coprire i rumori dei lavori in corso dei suoi complici suonando una fisarmonica. C’è una grandissima eleganza, in questo. Azioni in conseguenza di falle che, ad una ad una, vengono a galla, mettendo a nudo un sistema che dovrebbe essere perfetto ma che si rivela solo arrogante, esattamente come chi lo gestisce, semplicemente un altro criminale, un fascista sotto la scorza di un completo firmato. Perfetta, in questo senso, l’interpretazione di Patrick McGoohan nei panni del direttore: fu ideatore e protagonista de Il prigioniero, in uno scambio di ruoli sofisticato, un inside joke che qui lo vede carceriere, con il testimone del suo Numero 6 passato ad AZ1441, altro uomo ridotto a numero.
Come l’illusionista ungherese, immerso a testa in giù in una vasca sigillata, Frank comincia a far saltare tutti i lucchetti della prigionia, sognando il profumo dell’aria con la merda alla gola. La cosa che si nota guardando Fuga da Alcatraz è quanto questo piano abbia avuto (almeno nella finzione) pochissimi contrattempi, lasciando intendere il livello della mente che ci ragionava sopra. Non mancano momenti ad alta tensione e drammatici, come la scena in cui Chester Dalton viene privato della possibilità di dipingere, unico modo per lui di evadere, almeno con la mente; struggente e terribile come il gesto che seguirà e che convincerà Frank ad andare fino in fondo. Negli occhi di ghiaccio di Eastwood si riflette chiaramente la certezza di chi ha risolto un problema, più che la disperazione della cattività, e lo spettatore, se anche non conoscesse la vicenda, è sicuro che nessuno riuscirà a fermarlo. Se il finale è quasi scontato, il film si esalta nel raccontare i rapporti tra carcerati, una società in miniatura densa di umanità (solidale come estremamente violenta), con una complicità che il distanziamento sociale stimola, spingendo a cercare nuovi metodi di comunicazione in un mondo che prova in tutti i modi a isolare, perfino usando un topolino addomesticato. Perché neanche un testa matta e brillantissima come Morris sarebbe riuscito nel suo trucco di magia senza fare gruppo, tessendo una rete di fiducia reciproca con la promessa di risvegliarsi da un incubo in cui, tutto sommato, si sono infilati con le loro mani. Non ci sono santi, è una lotta tra mascalzoni che, come spesso accade, diventa specchio del nostro mondo: regola contro furbo, burocrazia contro disperato, prigioniero contro uomo libero. Scarafaggi, come vengono visti, che sgusciano nelle intercapedini del sistema, ormai incontrollabili, per raggiungere la libertà.
Ed è proprio l’11 giugno 1962 che tutto si compie, il percorso sicuro, i checkpoint preparati. Morris e i due fratelli Anglin, John e Clarence, orfani di un Allen West/Charlie Butts (suo alter ego romanzato) che nella realtà non riuscì ad allargare abbastanza il buco attorno alla grata di ventilazione e, secondo Siegel, ebbe un ripensamento all’ultimo minuto, quando l’adrenalina e il terrore si mescolano e ti trasformano in un blocco di cemento. Una fuga che, esattamente secondo i pieni, venne scoperta solo il mattino dopo, quando l’alba rivelò i fantocci nei letti del trio, facendo scattare una caccia all’uomo massiccia, con sommozzatori, cani ed elicotteri, soprattutto attorno ad Angel Island, vero obiettivo dei fuggiaschi, terra ferma più vicina alla “roccia”. Straordinaria la sequenza finale, con il direttore sulla spiaggia a osservare i resti della zattera improvvisata, con gli occhi che vengono attratti da un fiore, delicatamente appoggiato sui nudi e duri scogli; quel fiore sempre all’occhiello di Dalton, il pittore piegato dal suo ego, dalla sua brama di esercitare un potere che credeva divino, raccolto da Morris, insieme al dito mozzato dell’amico in quella falegnameria, per trasformarlo in simbolo di libertà. Risorti come fiori tra le rocce, dichiarati morti, annegati tra le acque della baia dalle autorità, pur senza aver mai ritrovato i corpi.
E se le voci sui fratelli Anglin sembrarono, negli anni successivi, arrivare dal Brasile con un certo grado di certezza, con ulteriori conferme dopo la confessione sul letto di morte di uno dei fratelli, Robert, che nel 2010 dichiarò di essere rimasto in contatto con John e Clarence dal ’63 all’87, Frank Morris sembrò svanire nel nulla. Qualche presunto avvistamento, voci, supposizioni. L’ultimo spettacolo di un artista della fuga diventato leggenda, impresso su pellicola attraverso l’interpretazione di un simbolo americano. Il sipario che cala, sulla sua vita come sulla storia del penitenziario federale di Alcatraz, chiuso definitivamente l’anno dopo, nel 1963. Titoli di coda, applausi, silenzio.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.