Outcazzari

Borg McEnroe nemiciamici - con una ricca introduzione sui fatti miei, e un prezioso compendio di Davide Giulivi

Borg McEnroe nemiciamici - con una ricca introduzione sui fatti miei, e un prezioso compendio di Davide Giulivi

- Che c’è di tanto affascinante in due branchi di affetti da gigantismo che cercano di ficcare una palla dentro a un cesto?
- Beh, l’affascinante è nel fatto fisico. Cioè, gli intellettuali hanno una cosa: sono la prova che puoi essere coltissimo e non afferrare la realtà oggettiva
— Woody Allen, "Io e Annie".

A livello teorico, lo sport mi affascina moltissimo. Mi affascina per la sua miscela di gioco, guerra e duelli; per la dimensione epica - eroica in senso classico - dei campioni, e per le idiosincrasia tra le loro vita private, spesso irregolari, sopra le righe, qualche volta addirittura uniche per esito e percorsi, e la dimensione artistica dei loro gesti.

Da bambino ho imparato a leggere sulle pagine della Gazzetta assieme a mio nonno. Lui era juventino, mio padre - suo figlio - è interista: per questa e altre ragioni (che però non ho mai saputo) i due non si sono rivolti la parola per anni.

In vita mia ho letto diverse biografie di grandi sportivi; di recente ho apprezzato moltissimo Open, sia per le storie che racconta, ma soprattutto per l’efficacia con cui riesce a restituire una certa America kitsch degli anni Novanta a base di colori fluo, code di cavallo, Nike e Michael Bolton; peraltro attraverso il punto di vista di uno che in quell’America lì non solo ci era dentro fino al collo, ma che ha pure contribuito a definirla.

Ogni volta che posso mi gusto i documentari sportivi raccontati da Federico Buffa, probabilmente l’unica ragione oltre a Twin Peaks e Il trono di spade che non mi ha ancora portato alla disdetta di Sky. Di Buffa ho finito col leggere pure qualche libro, tipo Black Jesus; ho persino un amico che frequenta la sua stessa palestra, e che mi racconta divertito che il noto giornalista, per distrarsi dal tedio degli esercizi, passa tutto il tempo a mandare a memoria i suoi celebri monologhi (non stento a crederlo).

Ho apprezzato gli scritti di Gianni Brera, persino quelli dedicati alla cucina: anni fa, col fatto che lavoravo come tuttofare per il festival letterario della mia città, mi sono infilato a scrocco in una cena che celebrava il giornalista pavese attraverso un menù meticolosamente ispirato al libro La Pacciada.

Ogni settimana faccio in modo di dare una scorsa veloce agli SportWeek di mio fratello (autentico fanatico di ogni genere di sport), e qualche volta sbircio gli articoli de L’Ultimo Uomo.Mi lascio ingaggiare facilmente dalla fratellanza d’armi degli sport di squadra, fin dai tempi di Holly e Benji, anche se ho adorato soprattutto il manga Slam Dunk, di Takehiko Inoue. Sono pure stato a un paio di partite di pallacanestro dell’Olimpia Milano, restando affascinato da tutto quel mondo lì: dagli atleti ai tecnici, fino ai ragazzetti che raccattavano le palle, e ho cercato di partecipare emotivamente all’azione nei limiti del possibile.

Gli sport individuali, invece, mi gasano in virtù della loro dimensione da duello. Da ragazzino ho persino provato a prendere lezioni di tennis sulla scia della rivalità tra Sampras e Agassi, all’epoca molto spinta dai media.

Sempre parlando di tennis, ho letto alcune cose di Gianni Clerici, comasco come me; e amante, come me, della divagazione - non che voglia azzardare paragoni di sorta, sia chiaro - assieme a qualcosina di David Foster Wallace. La scorsa estate ho persino iniziato Infinite Jest, ma non sono ancora riuscito a finirlo perché sono una di quelle brutte persone che apre più cantieri contemporaneamente, e non sempre li chiude. Ah, quasi, me ne scordavo, sul tennis ho letto anche cose fighissime tipo questa.

E poi c’è il cinema. Credo di essermi sciroppato buona parte dei film dedicati allo sport presenti sulla piazza: Un mercoledì da leoni, Rocky, Giorni di tuono, Ogni maledetta domenica, He Got Game, Alì, L'arte di vincere o Rush; finché ho retto mi sono sparato quasi tutte le stagioni di Friday Night Lights, e posso persino arrivare a commuovermi di fronte alla retorica da serve de La leggenda di Bagger Vance.

L'arte di vincere.jpg

 

Eppure, nonostante le pratiche che ho elencato, io non seguo assolutamente lo sport. Seguo le storie, OK, ma non sono capace di leggere nemmeno una partita di calcio. Posso al massimo comprenderne l’andamento generale, le ondate, tipo quando al liceo cercavo di tradurre a casaccio un brano dal latino, ma non mi riesce di scendere nel dettaglio. Il mio è proprio un problema linguistico, di codice. Ed è un problema grosso. Riesco a godere del contesto, ma non dell’azione. Un bel gesto atletico mi colpisce finché è plastico, finché resta sul piano delle idee, ma non sono capace di assaporarlo nel momento esatto in cui mi passa davanti agli occhi.

E sia chiaro che non voglio fare lo snob, anzi. Questa cosa la vivo come come un handicap che mi priva dell’ennesima fonte di intrattenimento. Una fonte di intrattenimento addirittura corale, sociale, rituale; regolata da appuntamenti fissi, tifo e senso di appartenenza.

Ogni tanto ci provo ancora, a cercare di alfabetizzarmi, ma più passano gli anni più mi convinco di aver perso il treno. Probabilmente questa mia tara dipende dal fatto che non sono un tipo contemplativo: una camminata in montagna o una nuotata in mare mi annoiano a morte, a meno che non saltino fuori zombi o i pirati. Ho sempre bisogno di un contesto, di una narrazione per calarmi nelle cose, ed è una debolezza che pregiudica non solo il modo in cui fruisco (o, meglio, non fruisco) dello sport, ma per esempio anche della musica.

In definitiva, credo di essere la prova vivente del discorso di Woody Allen citato in apertura di pezzo: per decenza non arriverei a definirmi un intellettuale, ma sono certamente uno che non afferra il “fatto fisico”.

Tutto questo pistolotto lunghissimo che mi è uscito è solo per dire che non seguo lo sport, non ci capisco una mazza di sport, non ho mai scritto di sport in vita mia, ma adoro i film e le storie che parlando di sport. Conseguentemente, sono finito nella sala dove passavano Borg McEnroe (dai, appena cinquemila caratteri prima di nominare l’oggetto della recensione, buono) proprio il giorno dell’uscita del film, e pure con una certa fotta: vuoi per il cast che sulla carta mi pareva azzeccato, puoi per i precedenti da documentarista del regista, il danese Janus Metz Pedersen (che ha pure a curriculum un episodio della seconda stagione di True Detective).

Inizio subito (oddio...) col dire che Borg McEnroe è uno di quei film che si merita il prezzo del biglietto anche solo per il materiale secco che butta sul piatto, in questo caso la rivalità tra i campioni di tennis Björn Borg (Sverrir Gudnason) e John McEnroe (Shia LaBeouf) sull’erba di Wimbledon nel 1980, dalle prime battute fino alla storica finale del cinque luglio, durante la quale il tennista svedese, all’epoca ventiquattrenne, si giocò il suo quinto titolo contro l’enfant terrible McEnroe, più giovane di soli tre anni. Il film racconta il classico scontro tra il campione glaciale e arrivato e la giovane testa calda piena di talento e passione. Un classico del dramma sportivo insomma, à la Top Gun o Rush, se non fosse che una serie di flashback sparsi qua e là durante il film si premurano di chiarire allo spettatore che, forse, alla fine della fiera le affinità tra i due sono più fitte delle differenze. Entrambi i campioni hanno semplicemente provato a gestire la tensione e la rabbia in maniera diversa: negandola, interiorizzandola fino a trasformarla in una rigidità al limite del disturbo ossessivo-compulsivo nel caso di Borg (la stessa rigidità che col passare degli anni gli impedirà di adattarsi ai cambiamenti del tennis, consegnandolo a una vita privata piuttosto problematica); buttando tutto fuori in maniera esagerata, quasi incontrollabile, per quanto riguarda invece McEnroe. In questo senso il film inizia in maniera addirittura splendida, con tutta quella scena nel bar che descrive un Borg sì glaciale, ma anche - apparentemente - umile e accessibile, lontano dai divismi, pur suggerendone comunque dei tratti di fragilità. Un giovane uomo bello, bellissimo, semi-divino; un eroe positivo per cui si è istintivamente portati a parteggiare, e che a livello di bilanciamento delle parti è anche il vero protagonista del film. Se non fosse che Janus Metz Pedersen mette il suo divo sul podio per poi decostruirlo attraverso i flashback incentrati sulla sua turbolenta gioventù: dal rapporto complicato con la disciplina, con i compagni di corso, ma soprattutto con l’allenatore ed ex tennista Lennart Bergelin (Stellan Skarsgård), fino all’incapacità di gestire serenamente il dialogo col pubblico e la celebrità. L’idea in sé non sarebbe nemmeno malvagia, e fino a un certo punto funziona pure: è facile entrare in sintonia con le difficoltà psicologiche di Borg, che vengono enfatizzate anche dalla livida fotografia delle sequenze in Svezia, dalla presenza scenica di Skarsgård e dall’alternanza con la backstory dedicata al rivale.

In effetti il lavoro sul cast, a livello di pertinenza, è una delle cose più riuscite del film: laddove Gudnason può giocarsela su una somiglianza clamorosa con Borg, LaBeouf raggiunge lo scopo lavorando sulla recitazione e sulla sua aria da stronzetto, dando fiato a un personaggio non scontato e tutto sommato lontano dal cliché del “bulletto stronzo ma sotto-sotto dal cuore d’oro”; bene anche per Tuva Novotny nei panni di Mariana Simionescu, tennista rumena all’epoca fidanzata di Borg.

Una foto dei veri Björn Borg e John McEnroe. Tutto sommato il cast è azzeccato, dai.

Una foto dei veri Björn Borg e John McEnroe. Tutto sommato il cast è azzeccato, dai.

Purtroppo, col proseguire del film l’apparato narrativo “extra-tennistico” e il tentativo d’indagine psicologica rivela i suoi limiti, risultando alla lunga eccessivamente pedante, didascalico, e finendo col girare a vuoto appesantendo la narrazione. A funzionare male sono soprattutto i dialoghi, che si prendono troppo sul serio provando a sembrare sofisticati e introspettivi, senza però andare mai al di là delle banalità di genere e finendo col limitare le potenzialità di un cast così azzeccato.

Forse una storia del genere avrebbe funzionato meglio con un registro meno pretenzioso: penso di nuovo a Rush, che nel suo manierismo riesce a caratterizzare dei personaggi più “vivi”a cui viene facile affezionarsi, forse per quel pizzico di tamarraggine che Ron Howard sceglie di infondere loro, e che funziona particolarmente bene in pendant col senso di pericolo a cui sono costantemente esposti (e che - va detto - non trova paragone nel tennis).

Eppure, quando finalmente il film entra nel vivo della gara e mette da parte le sue velleità psicanalitiche, ecco che riprende a respirare. Alternando primi piani epici da duello e riprese dall'alto molto leggibili, la regia riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore e, contemporaneamente, a dare l’idea di quanto possa essere stretto un campo di tennis, e quanta precisione occorra per praticarlo. Il senso di fisicità dell’incontro viene incrementato da un lavoro sul sonoro davvero ottimo, che ammanta di potenza ogni colpo, e che monta la tensione fino agli scambi decisivi.

Insomma, sul piano dell’azione pura e della rappresentazione dello sport mi è sembrato che il film sia riuscito a dire la sua come si deve, fermo restando che il mio resta lo sguardo di un “profano” del tennis che in sala non cerca la totale aderenza alla realtà, quanto semmai un buon compromesso tra spettacolo, leggibilità e verosimiglianza. E quello mi pare sia stato centrato.

Le scelte di regia favoriscono un'azione spettacolare ma sempre leggibile.

Le scelte di regia favoriscono un'azione spettacolare ma sempre leggibile.

Una volta terminato lo spettacolo in campo, svuotatesi le tribune e scaricata la tensione, il film torna a quel suo tono didascalico da “vorrei ma non posso”, che accompagna mestamente lo spettatore fino ai titoli di coda (pure loro un po’ pedanti e ripetitivi: “da rivali ad amici”/”prima rivali, poi grandi amici”, etc.).

Nel complesso però Borg McEnroe non mi ha lasciato scontento, l’ho guardato un po’ nella modalità docu-fiction, e se siete anche solo vagamente interessati al tennis o ai film sullo sport mi sento comunque di consigliarlo, fermo restando che se il regista fosse riuscito a scaldare un po’ di più i suoi personaggi, magari lasciando respirare il McEnroe di LaBeouf o sporcando le varie backstory senza, insomma, limitarsi al compitino, tutta la parte della partita decisiva - già molto buona - avrebbe guadagnato un impatto emotivo ancora maggiore. Però, insomma, capisco pure che siamo a Wimbledon e non su un campo da Football.

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Ho visto il film in lingua italiana il giorno stesso dell’uscita, lo scorso 9 novembre. Tutto sommato non mi è dispiaciuto, ma avrei preferito un lavoro sui personaggi meno scontato e all’altezza dell’epica finale. Comunque, come ho ben scritto, non lo sconsiglio, e se vi sbrigate fate ancora in tempo a incrociarlo in sala mentre leggete queste righe. Dì sicuro, invece, potete (DOVETE) prendervi tutto il tempo che occorre per leggere e rileggere il seguente compendio di Davide Giulivi, che prende la mia recensione, la accartoccia e se la mette nella tasca dei pantaloncini assieme con le palline da tennis.

Difficile, per un appassionato, confermare l’analisi del Peduzzi. Chi, in quegli anni, persino da preadolescente, assistette direttamente alla collisione, guardando il film di Janus Metz si ritrova a cavallo di un rollecoaster emotivo a base di dettagli scavati in tante narrazioni scritte successivamente. E quindi è tutto uno sgomitare ai poveri vicini di posto, dei poveretti desiderosi solo di seguire la storia ma a cui non puoi non far notare come il nome dietro cui si nasconde Bjorn per sfuggire dalla folla sia quello di suo padre, che quella macchina sempre uguale usata per i brevi spostamenti era una Saab e quella barba incolta sul viso dell’attore non è un escamotage volto a delineare lo scorrere del tempo, quanto l’ennesimo ossessivo tentativo di riprodurre per sei stagioni le stesse identiche condizioni dell’anno precedente. La stessa strada, le stesse caramelle succhiate da sua madre Margareta sugli spalti, che un giorno ne sputò una sul match point, quindi vide il figlio sbagliare i due punti successivi e procedette a raccoglierla da terra per rimetterla in bocca. Che il bambù di quelle cinquanta Donnay Alwood, incordate con un budello tirato alla folle tensione di 40 KG, a volte esplodeva nel borsone e Lennart doveva alzarsi in nottata per ristabilire l’ordine assoluto di una vita univocamente votata a produrre uno spin in più dell’avversario.

Nonostante l’effetto nostalgia, comunque, rimane la sensazione che il film non riesca appieno a far trasparire la condizione di un ragazzo completamente impreparato alla vita, intento ad osservare le certezze della sua gioventù infrangersi contro un agente del caos.

Bjorn era certo di poche cose. Sapeva che anticipando e colpendo forte la pallina non ci sarebbe stato avversario in grado di reggere al suo ritmo, ma doveva essere Gerulaitis (sigh) a trascinarlo allo Studio 54 per fargli apprezzare i vantaggi offerti dalla fama planetaria di “Borgasm”. Sapeva che rimanendo impassibile alle provocazioni di Connors, il bullo del tour avrebbe perso. Rovescio contro rovescio, un lento strangolamento su base statistica, ma poi non sapeva cosa intendessero i giornalisti intenti a chiedergli qualcosa sulle sue passioni. Non era passione la sua, era respiro. Era nato per respirare e correre e picchiare, e picchiando avrebbe battuto anche questo ragazzino newyorkese, privo di disciplina emotiva e tecnica ortodossa. Iniziava il servizio quasi di spalle, per estremizzare il vantaggio di essere mancino, ma poi quello che seguiva era puro caos. Un diritto corto, apparentemente destinato a morire in rete e invece colpito ogni volta in un punto diverso della racchetta, rasoterra come sopra la spalla, che diventava un top quanto uno slice o una palla piatta. A volte incrociata, a volte rimbalzante sulla linea del servizio, seguita dall’irritante capacità di capire sempre da che parte andasse il passante per trasformarlo in un punto così, smorzato come se nella breve parabola la palla si fosse ammansita alle volontà del subentrato padrone. L’esatto opposto del respiro metodico di Bjorn, che due anni dopo, in un altro torneo e in un altro match, si fermò a fissare il punto in cui John aveva spedito la palla, ignaro degli sguardi dello stadio, e decise che non gli interessava più. Più di niente.

È apprezzabile come le controfigure del film tentino di riprodurre le movenze dei due, l’escursione appena accennata di polso nel rovescio di John e lo stacco della sinistra in quello di Bjorn, e persino i punti più iconici di quella storica finale. Certo, le esplosioni secche con cui il regista cerca di dare corpo alla violenza dei colpi mal si sposano con le strofinate dello svedese e con il retino da farfalle di John, la cui Maxply con tensione da 18 chilogrammi spingeva molti a chiedersi se non esistesse qualche regola a riguardo, perché insomma, se proprio debbono collidere due opposti, più di così proprio non si può.

È apprezzabile, dicevamo, ma forse alla fine l’appassionato assapora di più il resto, il tentativo non perfettamente centrato di raccontare la vita dei due, più dei venti minuti e trentaquattro colpi più intesi della loro vita.

Per quello, fortunatamente, c’è la cosa vera.
— Davide Giulivi
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