Riflessioni a caso del lunedì mattina
Erano le sette meno un quarto, avevo finito di preparare la colazione, avevo cucinato il riso fritto uova e spinaci alla cinese per il pranzo della signora che oggi va in ufficio perché maledetto capitalismo, ero seduto sulla tazza a godermi cinque minuti di relax in solitudine e stavo pensando a tutto quel macello di Gamestop, Reddit, Wall Street, fondi speculativi e compagnia bella di cui non capisco nulla e che non starò certamente qui ad affrontare. Però ci stavo pensando, stavo pensando a come, seppur per vie traverse, il mondo dei videogiochi si è improvvisamente srotolato sul mondo delle conversazioni “serie” e le ha invase, infilandosi al centro dell’attenzione e dei giornali degli adulti, non per l’ennesima polemica su quanto faccia male stare davanti allo schermo, no, perché è diventato improvvisamente rilevante. E, di nuovo, non rilevante per la solita fase fratta a base di “ormai fattura più di cinema e tutto il resto messi assieme”, ma per come s’è ritrovato a toccare in qualche modo quelli che sono i MASSIMI SISTEMI e a farlo in quanto fetta consistente della cultura, della formazione, della società, da ormai svariate generazioni. Più che altro, mi è venuto in mente che non è certo la prima volta e, in particolare, ho ripensato a quando ci siamo ritrovati a parlare di Cina, di libera espressione, di censura, dittatura, aziende occidentali prone al padrone orientale e di come tutto questo, in un modo o nell’altro, finisca per toccarci. E l’avevamo fatto partendo da una cosa che era successa all’interno di Hearthstone, per mano di un’azienda, Blizzard, che spesso viene portata sugli scudi in quanto progressista. Era diventata una notizia da telegiornale, un qualcosa che pure la zia di turno aveva magari sentito dire. Tra l’altro, più o meno la stessa cosa era accaduta attraverso (un tweet di) un dirigente dell’NBA, il cui pensiero aveva portato a polemiche, discussioni, conseguenze.
Ecco, siamo a questo punto qui, il punto in cui i videogiochi “toccano” il resto del mondo più o meno come lo fa lo sport, e ciò che fa o dice “la gente” dei videogiochi ha quel peso culturale, sociale, economico. E intendiamoci: è normale. Del resto, “ormai fattura più di cinema e tutto il resto messi assieme” e, si sa, i soldi spostano gli interessi. Però a me continua a risultare (piacevolmente) strano e, forse, non arriverò mai a una pace dei sensi tale da farmelo ritenere normale. È una cosa generazionale, suppongo, e penso che chi nasce oggi e trova i videogiochi, o elementi dei videogiochi, sparati un po’ dappertutto, immersi in ogni fibra della sua società, darà per scontato questo genere di presenza trasversale. Ma a me risulta ancora buffo e a parecchia gente della mia generazione risulta proprio strano, quando non stupido, che si debba parlare di MASSIMI SISTEMI passando dai videogiochi.
Dove sto cercando di arrivare? Non lo so, volevo scrivere un editoriale di inizio mese e mi sono venute in mente queste cose. Diciamo che è il segnale, è un segnale, è l’ennesimo segnale. Lo è per esempio assieme al modo in cui ormai diverse generazioni di artisti sono cresciute spaciugando con i videogiochi e li intrecciano in varie maniere, più o meno evidenti, con l’arte che producono. O assieme a come pure negli ambienti più rigidi, gerontofili e retrogradi, tipo la politica o l’istruzione, emergano personalità che hanno dimestichezza col videogioco e sanno utilizzarlo anche come chiave per scardinare il cervello del proprio pubblico. Ci stiamo arrivando, stanno diventando parte del tutto, in larga misura già lo sono, difficilmente si tornerà indietro, mi chiedo se farò in tempo a vedere un mondo in cui sono totalmente assimilati e c’è un qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, che si dovrà puppare decenni nel ruolo del demonio da sconfiggere.
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