Tales from the age of plastic | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Ho visto cose che voi umani… Non avete nemmeno bisogno di immaginare, perché tanto c’è YouTube. Eppure, c’è stato un periodo in cui su YouTube potevi vedere solo video di visite allo zoo, niente unboxing e tanto meno streaming di giochi. Quindi l’unico modo per avere anticipazioni era recarti in città, in zona non proprio centrale, e cercare quello strano negozio di assistenza computer che vendeva anche videogiochi, che, non hai mai capito come, riusciva a farsi arrivare dal Giappone qualsiasi stranezza (in singola copia, ovviamente) senza nemmeno un sito di ecommerce da consultare.
E tu ti trovavi lì, tardo adolescente desideroso di giocare le ultime esotiche novità ma con inadeguato potere d’acquisto, a osservare con cura immagini che avresti potuto consumare sul tuo televisore di casa solo mesi dopo, magari con due enormi bande nere, una sopra e una sotto (o, in alternativa, un’immagine distorta) e, soprattutto, penalizzato da una sensibile lentezza a causa del diverso framerate fra le risoluzioni NTSC (Giappone) e PAL (Europa). Certo, se avessi avuto i soldi, avresti potuto comprare una console di importazione, un adattatore per l’alimentatore altrettanto costoso e giochi venduti almeno al doppio del loro valore. Fortunatamente non ne avevi in tasca abbastanza per concederti questi lussi e quindi quel pellegrinaggio da sabato pomeriggio era l’unico brivido su cui potevi contare.
Tranne quella volta in cui hai visto girare Dead Or Alive 2 sul Dreamcast (edizione giappo) e lì non sei proprio riuscito a resistere. Centottanta mila lire! E manco avevi il Dreamcast per giocarci! Ma se non potevi farlo tu, non l’avrebbe fatto nessun altro! Sarebbe bastato qualche mese di attesa per la versione PAL e a seguire quella per PlayStation 2 ma, cavolini, chi aveva mai visto una grafica in tempo reale di quel tipo! Cioè, avete presente Kasumi in quello striminzito kimono?! Amore a prima vista. Prima o poi saresti riuscito a mettere le mani su un Dreamcast, già lo sapevi.
L’acquisto di impulso era motivato da un precedente che ti aveva reso più scaltro. 1996: altra città, altro negozio di videogiochi, altra console, ma sempre un beat’em-up. Quella volta si trattava di Soul Edge, la versione NTSC per PSOne del gioco di combattimento di Project Soul. Non avevi mai visto un’intro in CG così, accompagnata da un brano musicale che mai ti saresti aspettato di sentire in un videogioco. Il futuro del tuo hobby preferito non era mai stato tanto eccitante! Ricordi di aver riavviato la console una mezza dozzina di volte per riascoltarla, e vedere il seno di Taki dondolare a tempo - per fortuna eri solo in negozio… Anche perché, per farlo a casa tua, avresti dovuto attendere altri sei mesi e, sorpresa: il video musicale era stato riarrangiato! Eh sì, perché per evitare cause con la casa di sviluppo Edge Games (responsabili di un gioco su Garfield) che aveva registrato la parola “edge”, Namco dovette cambiare nome in Soul Blade, e quindi anche il coro finale era stato modificato, variando leggermente il tempo. Per non parlare del fatto che nel Regno Unito erano stati banditi i nunchaku e quindi le armi di Li Long erano state camuffate. Anche se, a dirla tutta, lo scempio che più ti aveva fatto indispettire riguardava Sophitia: che ora non mostrava più le terga uscendo dall’acqua ma era avvolta da una pudica tunica bianca…
E non ti sei mai spiegato nemmeno come mai un simile rimaneggiamento sia toccato al FMV iniziale di Gran Turismo. Anche quello è stato uno di quei casi in cui aspettare la versione europea ti sembrava folle, d’altra parte sia nei picchiaduro sia nei giochi di corse non si può scherzare con i frame di animazione. Anche in questo caso, però, non si trattava di agonismo ma di emozioni: il fatto era che al brano inziale di Masahiro Ando, Moon Over the Castle, ti eri proprio affezionato, se ci fosse stato ai tempi Spotify, sarebbe stato a rotazione nelle tue playlist. E, invece, quando è arrivata la tanto agognata versione PAL (eh, già, alla versione import giocavi a casa di un amico…) eccoti il remix dei Chemical Brothers del brando Everything Must Go dei Manic Street Preachers (band che, purtroppo, avresti imparato ad apprezzare solo un decennio più tardi), accompagnato da sgommate e rombi di motore che non erano presenti nella catartica versione originale.
Sorte simile è toccata anche ad un altro dei tuoi classici di sempre, Resident Evil, noto in Giappone ancora oggi con l’etichetta di Bio Hazard. In questo caso, la colpa è di una band di heavy metal, una che nemmeno rientrava tra le tue preferite… Ma la cosa peggiore era che il gioco non era esattamente lo stesso a cui avevano già giocato gli utenti del Sol Levante. Eh sì, perché l’adattamento per i mercati occidentali non si limitò alla traduzione del titolo, ma il gioco venne pesantemente censurato. Furono tagliati o modificati parecchi filmati, non solo quello introduttivo per sostituire il titolo, ma per rimuovere i particolari più macabri e truculenti e tutti i riferimenti al tabagismo. Fu rimosso il cadavere del personaggio dalla schermata del game over e il sanguinamento in caso di ferite. Lo stesso trattamento sfoltente venne riservato anche ai dialoghi per renderli più sobri (sì, stiamo parlando proprio di “Jill Sandwich”…) ma ciò che più colpiva il giocatore consapevole era l’incremento del livello di difficoltà: addio puntamento automatico dell’arma e drastica riduzione (meno della metà) dei salvataggi disponibili per nastro inchiostratore. Quindi, per te giocatore del Vecchio Continente, meno horror e più survival.
Ma come faceva il giocatore a essere consapevole di tutto ciò? Ovvio, grazie alle riviste su carta! Prima dei social e prima ancora dei forum, tutta la conoscenza sul mondo videoludico veniva raccolta in mensili spesso dedicati a una sola piattaforma. E non avete idea di come le comunità di appassionati fossero davvero infervorate, nonostante le difficoltà di dover scrivere a mano una lettera, imbucarla in una cassetta postale previo acquisto di francobollo e attendere almeno due mesi prima che qualche altro lettore rispondesse alla tua missiva sempre dalle pagine della rivista. E questo lento processo, ovviamente, riguardava qualsiasi altra parte editoriale: tra l’annuncio del gioco, la scrittura dell’articolo, la stampa e la distribuzione, poteva passare almeno un mese prima che l’informazione venisse resa pubblica. Tanto, anche in quel caso, non avresti avuto comunque molte persone con cui condividerla in presenza. E non perché eri asociale, ma perché a giocare ai videogiochi eravate in tre, e gli altri due giocavano solo a titoli sportivi (ricordate Gran Turismo? Fu presto rimpiazzato da Winning Eleven, ma questa è un’altra storia…). Soprattutto, l’assenza di un contatto diretto con gli sviluppatori, comunque semplici dipendenti nella maggior parte dei casi, e sicuramente molto meno personaggi di quanto non lo siano oggi certi sviluppatori indipendenti, rendeva difficile cogliere la vera essenza dei loro progetti. Prendi di nuovo Resident Evil come esempio: i portavoce di Capcom dicevano che il team avrebbe voluto sviluppare una versione di Doom ma con i fantasmi. Solo che non erano in grado di creare un engine 3D in real time efficace e nemmeno i fantasmi e quindi dovettero ripiegare su inquadrature fisse e zombi. In realtà, come avrebbe ammesso in tempi recenti lo stesso Shinji Mikami (carismatico director e producer della serie), in Capcom avevano visto Alone in the Dark della francese Infogrames, ed era sembrato il gioco perfetto per rivisitare Sweet Home, un horror per Famicom derivato da un film (di cui Capcom deteneva proprio i diritti di sfruttamento) che a sua volta derivava da un libro, che aveva ottenuto grande successo (sia il libro, sia il film che poi il videogame) ma solo in madrepatria, senza mai lasciare i confini dell’arcipelago.
Ora ti chiederai perché stiamo parlando di Sweet Home? Perché è uno di quei giochi che quando parli di remake, remaster e replay salta fuori quando vuoi far sapere che te ne intendi. Che poi c’hai potuto giocare solo su emulatore nella versione amatoriale con i sottotitoli in inglese, e ti chiedi ancora perché l’hai fatto visto che già ai tempi, quando ancora non sapevi che nome dargli, avevi un “backlog” praticamente sconfinato di titoli a scaffale. Eppure, anche se tra i personaggi giocabili c’è un tizio con l’aspirapolvere, tu sai che Resident Evil viene da lì: stessa struttura degli enigmi, stessa modalità di spostamento tra gli ambienti, stesse porte in prima persona che si aprono su un abisso di mistero.
Morale della favola: Soul Blade diventerà Soul Calibur per buona pace di tutti. Resident Evil è sopravvissuto a Sweet Home e Alone in the Dark e, a parte il 2, le uscite pari di Dead Or Alive si sono sempre rivelate inferiori a quelle dispari. Purtroppo per Gran Turismo, là fuori adesso c’è una concorrenza spietata. Detto questo, c’è stato un tempo, prima di Internet, in cui ogni uscita era già di per sé la remaster di qualcosa che qualcuno, da qualche parte nel mondo, aveva già giocato almeno sei mesi prima di te, in una forma diversa dalla tua, rovinandoti in parte la sorpresa. E anche se non riesci a giustificare la nostalgia, già sai che tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire… Ma solo perché ti piacerebbe parlare anche di Demon’s Souls, e ancora non sei riuscito ad avere una PS5. Alla fine è un po’ come essere tornati negli anni ’90.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Meglio tardi che mai”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.