Top Gun, crederete che un uomo possa volare
Mi diverte sempre molto scrivere questi articoli in retrospettiva, un po’ perché, molto pragmaticamente, è tra le poche cose che riesco a scrivere con i miei tempi, un po’ perché mi permette di guardare indietro a come ero in un momento preciso della mia vita di (fruitore di contenuti, diremmo adesso, ma in retrospettiva è più corretto dire) spettatore di tutto quello sul quale riuscissi a mettere le mani, in una forma di bulimia cinefila completamente acritica alla quale faccio risalire la formazione del mio gusto.
Top Gun arriva in un momento di apertura specifico sul mondo del cinema degli anni ’80 che prima non c’era. Nel senso, non che non ci fossero gli anni ’80; era semmai la consapevolezza di quel cinema a essere vaga, e gli anni ’80 erano solo i dieci anni che intercorrevano tra il 1980 e il 1990.
In quest’ottica, la cosa interessante è dove e come ero all’epoca della prima visione della suddetta roba, le domande a cui spesso finiamo a rispondere almeno una volta a settimana durante i nostri podcast “retro”.
Top Gun ricordo che lo evitai a lungo, girandoci intorno. Non era una di quelle cose che passavano a casa mia, Padre lo aveva in antipatia, probabilmente lo trovava melenso o sentimentale, lui che era venuto su col western, questa declinazione sensibile dell’uomo civilizzato non l’ha mai incastrata.
Ma Tony Scott… Tony Scott è un’altra storia, perché se a Top Gun ho girato intorno, in Tony Scott sono inciampato spesso e con estremo gusto, tra l’altro: una cassetta di Nemico pubblico, Spy Game registrato in televisione, un dvd contraffatto di Man on Fire, la fascinazione post-tarantiniana per Domino (beata ingenuità), Déjà Vu, probabilmente uno dei primi film scaricati di sempre.
E Miriam si sveglia a mezzanotte, questo sì che stregò Padre, ma forse sarebbe più corretto dire che a stregarlo fu il leggendario fondoschiena di Catherine Deneuve, Miriam herself. E Revenge, utilizzato come monito per correggere quel veniale peccato di gioventù che era la mia tendenza all’adulterio. (Per la cronaca, nessuno dei Tiburon Mendes di turno alla fine è mai riuscito a mettermi le mani addosso, comunque.)
E quindi Top Gun era uno dei pezzi che mi mancavano nella collezione di opere di un autore di cui inavvertitamente avevo coperto praticamente tutta la carriera.
Non era ancora il momento storico dei recuperoni filologici di tutto un regista, era più un saltare in modo consapevole tra i collegamenti ipertestuali di Wikipedia procedendo per tematiche, riferimenti, curiosità. Altrimenti spararmi tutto quello che riuscivo a guardare di “attore col quale entravo in fissa”. Non è da escludere che fosse proprio il momento di fissa per Tom Cruise.
Saranno passati almeno dieci anni, ricordo - sicuramente sbagliando - che era estate. “Sicuramente sbagliando” perché l’estate c’è nel film. Tra gli indiscussi meriti di Top Gun c’è quello di avermi subliminalmente insegnato l’importanza di alcuni elementi tecnici del cinema, prima che sapessi dare loro un nome perché nella loro oggettiva potenza questi erano innegabili, come la foto sul dizionario.
Top Gun, nella fattispecie, insegna quanto pesano robe “marginali” che agli oscar premiano durante la pubblicità, come il montaggio e la fotografia.
Se della prima volta che ho visto Top Gun ricordo l’estate è perché tutto nel film vuole sembrare bollente, caldissimo, dai tramonti di uno sparato densissimo arancione che tingono le portaerei nell’oceano indiano, alle assolate strade della base di Miramar, San Diego, California, che sarebbero un non luogo perfetto, l’ennesimo modello riproducibile ovunque in quel paese assemblato sui non luoghi che sono gli Stati Uniti, eppure quel calore lo identifichi soltanto in California. Poi sì, ci sono le palme, ma è un dettaglio.
Tra i ricordi nitidissimi che ho c’è di quella volta che misi lo misi in blu-ray in salotto e quella luce arancione si spandeva densa nella sala come lo sketch del vitellone al vapore ne I Simpson.
L’altra cosa è l’umidità, con quella rifrazione della luce strana che fa sembrare tutti bloccati in un pantano d’aria arancione. Estremamente utile, tra l’altro, per una spettacolarizzazione del corpo maschile che sposta la pellicola a un livello di bromance fuori parametro, con tutto il corredo di ammiccatine, metaforette e allusioncine che uno spettatore malizioso di oggi non può non cogliere e c’è da capire un attimo quanto fosse consapevole quel sottotesto all’epoca, ma sarebbe veramente bellissimo se l’aeronautica militare USA avesse usato come spot di reclutamento una pellicola che oggi definiremmo queer.
L’altra lezione fondamentale che impartisce è sul montaggio. Il montaggio: questo sconosciuto. Girare una quantità di roba che poi andrà fatta letteralmente a pezzi e trasformata in una sequenza dove gli attori sembrano fare qualcosa che in realtà non stanno facendo, in questo caso pilotare un F-14 Tomcat.
Il confronto è con il momento storico in cui questa cosa arrivava e la netta contrapposizione con canoni stilistici discordanti, che condannano il montaggio reso esplicito e il virtuosismo non è il trucco cinematografico di creare l’illusione dell’azione, ma infilare lunghi piani sequenza che invece esaltano una certa dose di cazzolunghismo registico, sopprimendo il montaggio “a vista” con un complicato sistema di specchi e leve per illudere lo spettatore che quella lunga sequenza non abbia stacchi e che “WOW! Hanno fatto questa cosa senza sbagliare!” nonostante la maggior parte delle volte non è proprio così, e digitalmente giocando con le transizioni puoi fare la qualunque.
Tony Scott apparteneva alla vecchia scuola, quella dello stacco e della sintesi, della combinazione di sequenze in successione dove la camera accompagna lo sguardo dei protagonisti bloccati dentro le carlinghe, dove sai che stanno fingendo ma che, appunto, con quella finzione di movimento ci gioca per creare un movimento vero alternando movimenti di macchina e stacchi tra l’interno e l’esterno.
Questo rende le sequenze aeree di Top Gun uniche e ancora oggi godibilissime nella loro irrealtà e, probabilmente, la prova più dura da affrontare per un sequel che si pone l’obbiettivo di giocarsela con un film che ha dettato il modo di riprendere le sequenze aeree per, boh, spannometricamanete, i vent’anni successivi, se non proprio fino a Dunkirk di Nolan.
La cosa veramente peculiare a pensarla adesso è che il film non è una spettacolarizzazione della macchina ma gli aerei veicolano solo lo stato d’animo dei personaggi. Sono sempre il mezzo, mai l’oggetto, come si evince dal fatto che Maverick spinga il suo F-14 al di là delle leggi della fisica (e che i Mig-28 non esistono, ma evidentemente gli piaceva l’idea di raddoppiare il numero 14 degli F-14 per identificare una serie di aerei che in realtà erano F-5 e T-38 con schema colori modificato). Ma è anche evidente dal fatto che guardando la sequenza iniziale di decollo degli aerei il regista si soffermi sugli addetti alla pista, alla bassa manovalanza senza la quale gli eroi dell’aria non potrebbero stare in volo.
La scelta di incentrare tutto il film sulle emozioni dei piloti si riflette per altro sulla colonna sonora con Take my breath away che setta tutto il mood del film su toni totalmente romantici (e mi viene da dire che forse Tony Scott così romantico non lo sarà mai più); canzone tra l’altro tra le più stucchevoli hit degli stucchevoli anni ’80 che senza il supporto di questo film, della sua estetica, del suo romanticismo post-adolescenziale non avrebbe nemmeno senso di esistere.
(NDR: questo articolo è stato ovviamente scritto con in sottofondo la colonna sonora del film sparata a volumi molesti).
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle gioie del volo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.