Not another Zelda game: Majora's Mask | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Majora’s Mask è un gioco talmente assurdo che si apre con Link che va alla ricerca di Navi.
Ora, chiunque abbia giocato a Ocarina of Time, quindi qualche milione di persone nel mondo, sa che Navi è l’unico difetto in un gioco altresì perfetto, ed è allucinante immaginarsi un grande eroe che, dopo aver sopportato per decine di ore questa roba, possa decidere di perdere il suo tempo andando alla ricerca della più grossa rottura di coglioni mai uscita dal Giappone videoludico.
D’altra parte Majora’s Mask era un gioco assurdo già prima di nascere, quando ancora si chiamava Zelda: Gaiden (“Gaiden” è giapponese per “spin-off”, in sostanza) e pareva che sarebbe uscito fuso insieme a un altro spin-off della saga intitolato Ura Zelda. Le cose, in realtà, andarono un po’ diversamente, i due progetti non vennero mai unificati, Ura Zelda diventò la Master Quest di Ocarina of Time e Zelda: Gaiden si trasformò in Majora’s Mask, uno Zelda parallelo, ambientato in una versione altrettanto parallela di Hyrule chiamata Termina, sviluppato in meno di due anni grazie anche al sapiente riutilizzo di asset presi di peso da Ocarina of Time nonché uno degli unici tre giochi usciti per Nintendo 64 a richiedere il mitologico e quasi inutilizzato Expansion Pak (utilizzato da diversi altri titoli, ma solo in maniera opzionale).
Majora’s Mask, tra l’altro, vendette uno spavento di copie, com’è d’uopo per ogni nuovo Zelda che si rispetti, e venne accolto parecchio bene da critica e pubblico, com’è invece bizzarro per un gioco così fuori dai canoni della saga. Non è solo il fatto che non si svolge a Hyrule, quello succedeva anche in Lynch Awakening (AH AH pazzesco che mi sia venuta in mente solo ora), né che il cattivo di turno non è Ganon ma un cosetto dispettoso e alto come un soldo di cacio. La vera stranezza è più sfuggente e non definibile, se non tramite banalità: è nell’atmosfera da fine di mondo che si respira, è in quella sensazione di essere intrappolati in una pantomima presa di peso da Ricomincio da capo e da qualsiasi storia che ruoti intorno a un loop temporale, è in quella costante carogna che vive sulla spalla di Link e gli ricorda che ogni tre giorni o, se preferite 54 minuti, il mondo finisce, polverizzato da una gigantesca luna con la fazza incazzata. Era dai tempi di Adventure of Link e del suo RETURN OF GANON tutto il caps che il fallimento in uno Zelda non era così crudele, non puntava un dito accusatore così forte dritto in mezzo agli occhi di chi giocava.
Majora’s Mask è anche l’unico Zelda che è una corsa contro il tempo, un countdown costante verso il fallimento che si può solo sperare di posticipare, cancellando non tanto il progresso in senso videoludico (come in ogni buon loop temporale che si rispetti, è possibile trattenere cose, oggetti, pensieri, dettagli prima di ricominciare da capo), quanto l’esperienza umana: ad ogni reset, la gente si dimentica di aver conosciuto Link, tanto che con ogni interazione e iterazione, aumenta la sensazione di stare salvando il mondo, sì, ma anche di stare barando, di vivere in una sacca di realtà spostata un po’ più in là rispetto a quella in cui si muove tutto il resto del cast. Tutto questo, unito al fatto che una qualche forma di progressione ovviamente esiste, altrimenti staremmo parlando di un vecchio cabinato a gettoni, fa vagare la mente in direzioni bizzarre e ci si chiede per esempio quale delle tante realtà che Link è obbligato a vivere nel corso dell’avventura sia quella reale, e magari se la realtà stessa sia una cosa che si definisce per accrezione e aggiunta, o se al contrario la vera Termina sia la prima versione che si incontra e tutto il resto non sia altro che una violenza sul tessuto stesso dell’esistenza, imposta da un tizio che siccome ha sempre fatto l’eroe, è convinto di doverlo fare anche quando nessuno glielo chiede.
Esistenzialismo d’accatto a parte, Majora’s Mask è probabilmente lo Zelda che più di tutti ha avuto influenza su cose che non erano Zelda, sicuramente aiutato in questo dal fatto di girare intorno a un trucchetto narrativo non nuovo. C’è un elenco lunghissimo di roba che ha preso ispirazione dal loop di Majora’s Mask e dal modo in cui quest’idea è declinata, da Minit al recentissimo Outer Wilds a una caterva di giochi giapponesi dei quali mi piace citare la già da me recensita trilogia dei Nonary Games e il terribile Final Fantasy: Lightning Returns, passando per opere più collaterali e meno basate sul loop vero e proprio, tipo Dead Rising e Deadly Premonition. E d’altra parte, Majora’s Mask a sua volta raccoglieva spunti un po’ dovunque, soprattutto da Kirby e le sue trasformazioni, oltre ovviamente a contenere una notevole quantità di classico Zelda. La mia considerazione preferita, parlando di influenze, è quanto l’immancabile parte “dungeon” che è presente in ogni Zelda sia qui affrontata in un modo che verrà ripreso solo diciassette anni dopo in Breath of the Wild: non ci si avventura nei labirinti per uscirne più forti ma per risvegliare un’antica entità che aiuterà Link a salvare il mondo.
La sfiga e le imperscrutabili vie di mamma Nintendo ci impediscono purtroppo di poter godere oggi di Majora’s Mask, a meno di possedere un Nintendo 64 con Expansion Pak, di saper pitoccare con gli emulatori (che a onor del vero non è difficilissimo) o di giocarci sull’adorabile ma limitato doppio schermo del 3DS. Si meriterebbe un vero remake, un remaster, un reloop, un reflusso gastroesofageo, qualsiasi cosa, pur di farlo tornare rilevante e non solo quella stranezza da più di tre milioni di copie e zero figli nella genealogia di Zelda. Non succederà mai, ma pazienza, forse è già successo in un loop precedente, non lo sapremo mai, resta comunque la considerazione indiscutibile che Majora’s Mask è uno dei migliori Zelda di sempre, proprio perché (come Adventure of Link, Wind Waker e Breath of the Wild) non è il solito Zelda.