La melassa drogata di Una mamma per amica: Di nuovo insieme
Locura. Da quando ci sono incappato per via di Boris, ormai la vedo dappertutto: come ho la sensazione che un film, una serie, un libro o un videogioco (in genere di Kojima) siano lì lì per buttarla in caciara, penso agli sceneggiatori democratici e alla loro delirante exit strategy.
Eppure la locura è una roba ambivalente; se uno la approccia nel modo giusto, può trasformare lo squilibrio in un equilibrio tra squilibri, azzeccando - sai mai - il capolavoro. E i capolavori non sempre sono delle cose perfette e tutte fatte a modino; spesso debordano, sono sgangherati, come sgangherato è pure questo ritorno delle ragazze Gilmore, A Year in the Life, che riprende un filo del discorso interrotto quasi una decina di anni fa.
Con ordine: l’originale Gilmore Girls è una serie TV mandata in onda per la bellezza di sette stagioni, dal 2000 al 2007, sui canali WB e The CW, arrivata anche dalle nostre parti col vergognoso titolo (nel senso che metteva proprio vergogna a pronunciarlo, e se ti chiedevano puntavi la testa nel piatto e facevi finta di niente) Una mamma per amica, che non solo è davvero brutto ma pure fuorviante, perché taglia automaticamente qualsiasi riferimento alla terza Gilmore, Emily, e al conseguente rapporto nonna/madre-figlia/madre-figlia/nipote, che poi sarebbe “solo” il cuore della serie. Non che la cosa nel complesso importasse poi troppo, intendiamoci, considerato che lo show era stato nascosto nel palinsesto pomeridiano di Mediaset, a fianco delle peggio telenovelas.
Comunque, per via delle mie abitudini da universitario/casalinga, io ‘sta Mamma per amica (da adesso in avanti solo Gilmore Girls) ai tempi me la guardavo. All’inizio ero attirato principalmente dalla pedo-mesmerizzante tenuta scolastica di Alexis Bledel, ma pian piano ho finito con l’apprezzarne l’originalità, il taglio surreale, il buongusto, i dialoghi scritti bene e recitati meglio e a rotta di collo; ma soprattutto quell’equilibrio davvero unico tra commedia e dramma, annaffiato da qualche boccale di melassa allucinogena che neanche Mary Poppins.
Attorno a questo trio in gonnella, gravitano le vicende di un bel gruppetto di gente, pennellato alla perfezione: si va dal patriarca Richard Gilmore (interpretato magistralmente dal compianto Edward Herrmann) ai vari partner delle ragazze: Luke, Jess, Christopher, Logan, Jason e persino quel bifolco di Dean, senza dimenticare tutta la parata di personaggi più o meno di contorno, come Lane & la cazzutissima madre di Lane, Kirk, Paris, gli Hep Alien, Patty, Babette, Taylor, Gypsy, Sookie, Jakcson, Michel e ogni volta che butto giù un nome me ne viene in mente un altro indimenticabile quindi mollo la lista, ma a malincuore. Parata, dicevo, che compone il debordante mosaico di Stars Hollow, cittadina di provincia situata in un Connecticut da sogno - nel senso che c’entra meno di una fava col mondo reale - sospeso tra la cultura contemporanea e la tradizione americana. Un mix che mescola senza patemi Mark Twain e Norman Mailer (che compare pure come ospite in un episodio), Michael Curtiz e John Hughes, Paul Anka, David Bowie, il punk, il blues, il jazz, i Nirvana, i Foo Fighters, gli Skid Row e chi più ne ha più ne metta, senza contare i rimandi alla cultura televisiva “classica” dei vari Happy Days (Trix, madre di Richard e “quarta Gilmore”, è interpretata da Marion Ross), The Honeymooners, The Mary Tayler Moore Show, I Simpson, Twin Peaks e via dicendo.
Poi ci sarebbe pure tutta la faccenda del junk food, ma quella meriterebbe proprio un articolo a parte (se non un intero libro di ricette).
Comunque, tutti questi riferimenti sudano copiosi da dialoghi e ambienti, definendo il tono della serie e marcando il campo da gioco dei Palladino, ossia quella cultura americana onesta e storicizzata che prende le distanze da produzioni stereotipate come Beverly Hills 90210, The O.C. o Dawson’s Creek.
A prescindere dai riferimenti, la provincia disegnata dai Palladino è sostanzialmente conservatrice, attaccata alla tradizione, e persino i personaggi più emancipati sono sotto sotto un po’ bacchettoni. Basti pensare a Lorelai, la ribelle di famiglia cresciuta con le Bangles e i film di Hughes, che a sedici anni sceglie comunque di rinunciare all’aborto, finendo con l’aderire al sistema di valori dell’odiata madre Emily, che resta a mani basse il personaggio più riuscito; quello, tra l’altro, che al netto dei cliché e dei toni caricaturali, esalta al meglio la scrittura della Palladino e ne restituisce il punto di vista morale.
La provincia delle Gilmore è un sogno sicuro, un luogo immaginario dove rifugiarsi (e dove, di fatto, Lorelai si rifugia). Un luogo che osserva la vicina New York con sospetto e apprensione (il newyorkese Jess, ad esempio, passa per ribelle senza una causa nonostante si limiti a qualche atto di teppismo scherzoso e poco più), dove i musicisti rock sono bravi ragazzi, dove non circolano droghe e gli alcolici sono serviti con la ciliegina ai cocktail party.
Eppure, questa America provinciale non è statica. In qualche modo, registra il passare del tempo e le differenze tra una generazione e l’altra, solo che lo fa senza troppi scossoni, in maniera sottile, filtrandoli attraverso elementi di disturbo integrati nella comunità, come la stessa Loreali, Luke, Jess o lo stralunato Kirk (interpretato da Sean Gunn, fratello del cineasta James) che porta alla serie un tocco surreale.
A fare da contrappunto a questo palcoscenico di cartapesta c’è tutto un mondo emotivo costruito con intensità e realismo, che vive di dettagli, di emozioni, di detti-non detti e di rapporti articolati e spesso complicati, come quello che lega le donne Gilmore. Il loro è un legame che si svela ed evolve stagione dopo stagione in maniera assolutamente credibile e spontanea, e che definisce la linea narrativa dello show. Linea che, purtroppo, a partire dal 2006, ha subito un brusco shock, a causa del mancato accordo tra i Palladino e il network The CW, con la conseguenza di una settima stagione “apocrifa” e di una cancellazione prematura, che ha lasciato parecchi fili narrati appesi col Vinavil.
A riprendere le redini del discorso, proprio quando tutti i avevano messo giù il pensiero, è stata Netflix, che dopo un lungo tam-tam tipo “Quello torna, quella non c’è, alla fine ci sono tutti, qualcuno magari per poco ma c’è” ha rilanciato la serie brasando i convenzionali ventidue episodi da quaranta minuti per puntare su un format più agile e sostenibile, composto da quattro episodi di un’oretta e mezza ciascuno, che presi tutti assieme coprono un anno di vita delle Gilmore.
Come spesso succede in questi casi, la nuova cornice dello show ha finito per incidere sui contenuti addirittura più del tempo passato per attori e personaggi: se da un lato ha concentrato un po’ troppo il flusso narrativo, dall’altro ha tolto le dighe all’estro sgangherato della Palladino, valorizzandolo.
I quattro episodi - uno per stagione, a partire dall’inverno - hanno una densità altissima, esplosiva, ma pur debordando riescono a costruire un cerchio narrativo coerente, attraverso un processo classico di tesi (inverno/primavera), antitesi (estate) e sintesi (autunno) che ruota attorno alla morte di nonno Richard, come si evince da tutta la faccenda del quadro. Tra l’altro, già il fatto che la morte dell’attore Edward Herrmann vada a coincidere con la principale molla narrativa della serie è indiziario della carica grottesca in atto, senza contare che innesca un bizzarro gioco metatestuale, che serve sullo stesso piatto i cambiamenti dei personaggi, quelli dello show e, sai mai, pure quelli degli attori.
Comunque, il lutto piomba nella vita delle ragazze Gilmore in un momento già di suo un po’ particolare: Lorelai è una donna di mezza età che deve fare i conti con una relazione stabile (a cui non è avvezza) e un desiderio di maternità difficile da gestire; Rory è una giornalista freelance sui trent’anni in crisi personale, professionale e sentimentale (tra l’altro, ha all’incirca l’età della madre quando è cominciata la prima stagione). E se Emily, per quanto ne sappiamo, non aveva grane particolari prima della morte di Richard, ora si trova a fare i conti con una vedovanza pesantissima che - una parola di troppo tira l’altra - finisce col mettere di nuovo in discussione il suo rapporto con Lorelai.
Insomma, tutto come prima ma anche tutto diverso. I Palladino rimettono a fuoco la serie dopo la debacle della settima stagione, e nel farlo scelgono la via più radicale, spingendo le ragazze sull’orlo di una crisi di nervi e ribaltando le proporzioni tra melassa e droga. La Stars Hollow del 2016 è più spinta ed eccentrica rispetto a quella del 2006 (che pure non scherzava); siamo in piena zona Lynch, gli sceneggiatori ballano guancia a guancia con la mitologia di Twin Peaks, e a spararla grossa si potrebbe pensare che da qualche parte nel Connecticut abbiano nascosto l’ingresso per la Loggia Bianca. E OK, ultimamente sono in fissa con Lynch, ma si badi che nella serie classica i rimandi al regista non sono mai mancati, e in questo revival sono proprio a raffica di mitra: si va da Kirk in versione Eraserhead, a un certo merlo parlante, dalla presenza di Ray Wise al funerale di Richard al musical dedicato a Stars Hollow che sembra una rivisitazione di Rabbits, per non parlare di una certa scena di canto che infilza con un colpo solo Mulholland Drive e Velluto Blu. Insomma, Lynch se la fischietta un po’ dappertutto, e alla fine è evidente che lui e i Palladino prendono le stesse droghe reagendo in maniera diversa.
Anche il linguaggio visivo della serie è complessivamente più spinto, meno garbato che in passato, e le quattro puntate sono caratterizzate da scelte cromatiche e di regia piuttosto decise, qualche volta addirittura inedite per i canoni della serie.
Estetica e scrittura concorrono nel definire le differenze tra stagione e stagione. L’inverno è lieve, perfetto per introdurre con dolcezza i cambiamenti nella vita delle ragazze e far accomodare gli spettatori. Stars Hollow è rimasta più o meno come l’avevamo lasciata, con tutti i suoi luoghi storici e quei deliziosi personaggi di contorno che meriterebbero ciascuno il suo bravo spin-off. Peccato per gli inutili cammeo di alcuni ex delle Gilmore, che saltano fuori a caso giusto per fare l’occhiolino e salutare. Amen.
La primavera è un momento di passaggio, in qualche modo chiude l’inverno e prepara gli animi alle follie dell’episodio successivo, che chiamerò senza mezzi termini “l’estate della locura”. Ecco, l’estate mi è parso l’episodio più riuscito, nonché quello stilisticamente più forte, esplosivo. Prende le distanze dalla serie classica ma senza tradirla, dando il passo dei nuovi episodi e comunicando alla perfezione la visione degli autori. In tutto questo, è pure l’episodio più sbilenco e “sbagliato”; non sempre è facile capire se le note troppo alte o stonate siano frutto di scelte consapevoli o provengano dai vincoli narrativi. Insomma, la parte estiva non funziona sempre come si deve, ma quando ingrana lo fa così bene che riesce a farsi perdonare tutto.
Di contro, l’ultimo episodio, l’autunno, parte malissimo per via di un’introduzione musicale che te le tira fuori dalle mani, e del ritorno degli unici personaggi scritti male dello show. Per fortuna poi si riprende, molto bene, in un crescendo di tensione emotiva che chiude alla perfezione l’arco di trasformazione delle ragazze. L’autunno regala i suoi bravi momenti lucciconi, come la passeggiata di Rory nella casa vuota dei nonni, la telefonata a cuore aperto tra Loreali ed Emily e quel sorriso finale di Kirk, che svela per la prima volta tutta la sua sensibilità e il suo animo gentile agli spettatori (ma non ai personaggi). Giustamente, più che su Rory e Lorelai, l’ultimo atto punta i riflettori su Emily, che supera la sua crisi depressiva e il trauma del lutto, ricominciando una vita nuova di zecca, accompagnando lo spettatore verso l’uscio senza retorica e con i soliti modi impeccabili; lasciandogli un po’ di magone, ma anche la sensazione che sia valsa la pena aspettare tutto questo tempo per tornare a far visita alle Gilmore.
In chiusura, un disclaimer che sento necessario: ad avere poco tempo, la serie nuova è fruibile anche per i fatti suoi, e del resto recuperare sette stagioni “vecchia maniera” è uno sbattimento non da poco: insomma, in fondo, i rapporti tra personaggi e i ruoli vari si afferrano abbastanza in fretta, e alla brutta c’è sempre wikipedia.
Tuttavia, come ho scritto, questi quattro episodi rappresentano l’apice di un percorso emotivo innescato molto tempo fa, ed è francamente impossibile cavalcarlo in pieno senza il giusto background. Quindi, se avete modo e voglia, consiglio caldamente di recuperare la serie completa (sta tutta su Netflix, tra l’altro). Se proprio non avete cazzi, lo ribadisco, questi quattro episodi stanno in piedi anche da soli, e sarebbe un peccato lasciarli nel piatto per l’ansia da prestazione.
Nel dubbio, comunque, chiedetevi: “cosa farebbe Emily Gilmore?” (e questo vale un po’ per tutto).
Ho guardato Gilmore Girls: A Year in the Life in una settimana, con comodo, dopo essermi ripassato ben bene le prime sei stagioni della serie classica e qualche episodio della settima (che a un certo punto però ho mollato, perché mi faceva cagare). Trovate tutto il pacchetto – vecchio e nuovo - su Netflix, col titolo tutto sbagliato dell’edizione italiana.