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Post Mortem #18 – Shadow Puppeteer e la cooperativa fatta come si deve

Post Mortem #18 – Shadow Puppeteer e la cooperativa fatta come si deve

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Quando si realizza un gioco pensato per il multiplayer cooperativo, c'è sempre il rischio di creare meccaniche e situazioni in cui un giocatore tende a fare tutto e l'altro o gli altri si limitano ad accompagnare e, ogni tanto, dire la loro. Insomma, bisogna evitare di ritrovarsi con un protagonista e una spalla, comodo schiavetto o supporto più morale che effettivo. Ne ha parlato alla Nordic Game Conference 2016 Marianne Lerdahl, chiacchierando della propria esperienza nello sviluppo di Shadow Puppeteer, un gioco che – lo ammetto – mi sono sempre visto passare davanti, di cui avevo preso nota, ma al quale non ho mai trovato il tempo o la voglia di dare una chance. Adesso la voglia ce l'ho, ma non ho amici per giocarci in cooperativa locale. Aspetterò che cresca mia figlia per giocare al terzo episodio. Ma sto divagando.

Il cuore del discorso proposto da Lerdahl alla conferenza stava nell'impostazione che secondo lei bisogna dare alle meccaniche in cooperativa e nella necessità di evitare la trappola del "tag along", per l'appunto, la situazione in cui uno gioca per davvero e l'altro si limita a girargli attorno come un pod di R-Type (o come i giocatori un po' impediti che svolazzano costantemente nelle bolle dei New Super Mario Bros.). Il punto è che se vuoi realizzare un gioco davvero in cooperativa, ti ci devi dedicare a tutto tondo, devi studiare modi per integrarla ad ogni livello, senza limitarti ad applicarla a qualche singola situazione, trasformandola invece in parte integrante delle meccaniche e perfino della narrazione. Devi quindi evitare di proporre un racconto in cui c'è un singolo eroe e tutti gli altri personaggi stanno in secondo piano, altrimenti finisci subito per comunicare al giocatore numero 2 che lui conta meno. Povera stella.

Se vuoi realizzare un gioco che abbracci davvero il concetto di cooperativa, il personaggio controllato dal secondo giocatore non deve essere una semplice spalla, o magari un anonimo clone silente come accadeva in Resistance. Tutto il contrario: dev’essere altrettanto un eroe. Per questo, in Shadow Puppeteer il team di sviluppo ha raccontato una storia in cui entrambi i protagonisti sono eroi al centro delle vicende, motivati dallo stesso obiettivo: fermare il burattinaio malvagio.

Ma chiaramente la “cooperativa narrativa” non basta, perché bisogna lavorare anche sulle meccaniche. E qui Lerdahl si perde in una breve divagazione su come spesso questo aspetto viene affrontato. C’è per esempio chi decide di proporre due personaggi dalle meccaniche identiche (Resistance, appunto, ma in linea di massima qualsiasi FPS), e può andare benissimo, ma si corre il rischio che i giocatori finiscano per sbilanciare la cooperativa, che uno dei due faccia tutto e l’altro si limiti a seguire. È un problema attorno a cui puoi girare ideando enigmi che vadano risolti in parallelo, con azioni coordinate, ma è una cosa che finisce per limitare molto il design del gioco. Oppure puoi decidere di creare due personaggi totalmente diversi, dando vita ad un’asimmetria completa delle meccaniche, ma il rischio è che così facendo i due giocatori non sentano una reale connessione fra di loro. Marianne Lerdahl e Sarepta Studio hanno scelto una terza strada.

In Shadow Puppeteer i due personaggi hanno le stesse meccaniche di base, ma si differenziano nelle meccaniche periferiche. Il ragazzino si muove per gli ambienti in 3D, mentre la sua ombra può spostarsi solo in 2D, essendo appiccicata ai muri. I due personaggi condividono quindi una base da platform/puzzle game, ma vivono di due nature sufficientemente diverse da renderli entrambi interessanti e altrettanto necessari. A quel punto, ovvio, diventa fondamentale pianificare il level design per fare in modo che i due abbiano lo stesso numero di abilità specifiche e di attività da portare a termine necessarie per il proseguimento del gioco, in modo da far sentire entrambi i giocatori importanti.

Bisogna stare attenti a conservare il giusto equilibrio nell'introduzione di meccaniche e abilità per entrambi, senza favorire l'uno o l'altro, e per questo motivo in Sarepta Studio lavoravano con un gigantesco grafico che teneva conto di ogni singola skill, di ogni singolo enigma, del piazzamento di ogni dettaglio. In questo modo c'era a disposizione un'enorme mappa dinamica tramite cui tenere costantemente traccia di tutto e assicurarsi che le cose rimanessero bilanciate. Il risultato è un gioco apprezzato proprio per la cura con cui è stata realizzata la componente co-op (NB: è possibile anche giocarci da soli, ma dovete essere tristi come me). E, dice in chiusura Marianne Lerdahl, realizzare un bel gioco in cooperativa è bello, perché in fondo la capacità di lavorare assieme e aiutarsi è il motivo per cui la razza umana, tutto sommato, spacca i culi.

Due madonne con Trials of the Blood Dragon

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E3 2016 a casa Kenobisboch

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