Racconti dall'ospizio #75: La sala giochi, piena di giochi
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
I ricordi delle sale giochi sono tanti quante le persone che ci sono entrate, perché ognuno la viveva a modo suo.
Parlare di sala giochi è parlare di territorio, non è una di quelle cose che puoi ridurre al minimo comun denominatore. Ossia, puoi anche farlo, descrivendo i personaggi tipici di questi luoghi mitologici, ma nove volte su dieci sono esseri fantastici, costruiti su archetipi più narrativi che reali. Il bullo che spadroneggia al punching ball, il ragazzino con difetti di attenzione che ti tormenta per fare il boss al posto tuo, la ragazza annoiata, il maniaco, il gestore sempre scazzato.
Lo siamo stati e forse li abbiamo visti, ma tendenzialmente i ricordi che abbiamo delle sale giochi non escono da quel quadrato magico che catturava irrimediabilmente la nostra vista, sia che fossimo noi a giocare, sia che fossimo quelli che sporgevano sopra la spalla per dare un’occhiata, magari dopo aver appoggiato duecento lire sul vetro del cabinato per prenotare la prossima partita.
La verità è che ogni articolo sulle sale giochi fa storia a sé, perché ogni sala giochi faceva storia a sé e potevano presentarsi con mille facce. C’erano quelle malfamate e terribili in cui magari per la prima volta sentivi la parola “ganja” e in cui tua madre ti proibiva di andare, ma tu ti facevi forza, perché se guardavi in basso e ignoravi le brutte facce, potevi trovarti di fronte a una versione extralusso con feedback di Sega Rally. C’erano quei due o tre cabinati nascosti nel retrobottega dei bar e delle latterie, dove potevi farti una partita al volo a 1943 o Soccer Brawl mentre i tuoi si prendevano un caffè in santa pace. C'erano i cabinati dei chioschi sulla spiaggia, in cui giocavi a piedi scalzi e che erano avvicinabili solo quando il sole non ci batteva contro. C'erano quelle ricavate in un prefabbricato che facevano bella mostra di sé nei campeggi delle vacanze. Se ti capitava di viaggiare, poi, toccavi con mano il mondo di chi le sale giochi le vedeva come posti non strutturati per ricavare una coltellata o farsi spintonare dal quasi maggiorenne di turno.
In Giappone diventavano astronavi piene di postazioni dove provare giochi che erano vere e proprie esperienze fisiche con moto da guidare, robot da comandare e passi di danza, e lo stesso accadeva negli Stati Uniti, dove la tua mascella cadeva irrimediabilmente di fronte a una fila sterminata di cabinati perfetti che aspettavano solo i tuoi quarti di dollaro.
Non a caso in entrambi i paesi le sale giochi sono ancora presenti, sia come avanguardia tecnologica di situazioni che puoi vivere solo là, perché non tutti possono permettersi il cockpit di un aereo in salotto, sia come esperienza vintage. Fatevi un giro sul molo di Santa Monica, entrate nella relativa arcade e, se non vi spunta la lacrima, fate un test Voight Kampff, probabilmente non siete umani.
Le sale giochi erano anche luoghi in cui il mito dei videogiochi e dei suoi personaggi di contorno si alimentava, perché Street Fighter II non sarebbe stato niente senza la rivalità che si consumava fra due esseri umani che stavano gomito a gomito, stretti in una tensione agonistica durissima da sopportare, se non avevi la stoffa del campione e la freddezza del killer. Giocare per il gusto di giocare era praticamente impossibile, perché c’era sempre qualcuno che guardava o che magari voleva unirsi. E giocare in doppio non era mica una roba che potevi improvvisare così, era un’esperienza intima, da fare con qualcuno che conoscevi bene e che conosceva le regole non scritte: a Final Fight, il pollo lo prende quello con meno energia, mica il primo che ci passa accanto. Il rischio era di aver speso i propri soldi per dover fare coppia con uno stronzo.
Proprio con Final Fight, ebbi una fra le esperienze più assurde della mia vita, un momento stampato a laser nelle mie sinapsi che forse neppure la demenza senile porterà via. Avevo appena iniziato una partita (sempre con Haggar, ovviamente) e, come se niente fosse, si avvicina un ragazzino romano che a malapena arrivava ai comandi e mi propone il doppio. Accetto con riserva, perché ero e sono un timido che non sa dire no, il romanetto inserisce la moneta, sceglie Guy e da quel momento inizia a urlare come un pazzo “COZZE FERRATE! COZZE FERRATE! MENALO! DAJE” interrompendosi solo per dirmi “Pijate er pollo, che mo’ questo lo corco io”. Oh, almeno le regole le sapeva, però credo sia stata l’unica volta in cui ho giocato in una sala giochi cercando di capire qualcosa tra le lacrime della gigantesca crisi di riso che mi è cresciuta dentro finché, non sono volutamente morto per andare in bagno a ridere.
E per quanto le generazioni attuali stiano vivendo bellissime e nuove esperienze col single player, per quanto il retrogaming sia ormai diventato un’esperienza alla portata di tutti, ciò che manca a qualunque succedaneo moderno sarà la magia di quei luoghi.
Perché giocare là, essere là, valutare come spendere quella moneta non è come farsi il cabinato in casa, non è come emulare tutto con un Raspberry Pi o comprare un vecchio televisore per godere dell’estetica delle linee di scansione. Non è un discorso per vecchi bacucchi nostalgici che rimpiangono i bei tempi andati, è una complessa combinazione di spazio, tempo, età e momento storico. Potrai avere quattromila persone che ti seguono su Twitch ma il loro sguardo non peserà mai come quei due o tre ragazzini che ti fissavano mentre cercavi di mettere il tuo nome in cima alla classifica dei punteggi di Metal Slug.
Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.