La riforma Franceschini non salverà il cinema e la televisione italiana
«Con Eduardo e Dario Fo, ma tanti anni fa, quando io ero pressoché ventenne, abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Proprio l’oblio dello Stato, oblio di me, ecco. Abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza. L'artista, soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar se stesso, va bene? Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre, che non l'ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l'ha sempre trattenuto e fermato, alla fine viene un ministro – proprio poliziotto – che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri deve campare, deve sopravvivere anche quella; se no, a quella mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato, chi ci pensa?»
Si potrebbe iniziare così, con una provocatoria citazione di Carmelo Bene, per commentare la recente riforma Franceschini. Le maggior parte delle produzioni artistiche, da secoli, sono state infatti influenzate da un mecenate o comunque da una sorta di committente che, non di rado, imbrigliava l’artista in una serie di vincoli da rispettare. Col passare dei secoli, e con il venir meno delle monarchie, a cambiare fu l’interlocutore con cui l’artista doveva confrontarsi: non più il monarca ma lo Stato, da asservire con le proprie competenze. Epoche diverse, contesti diversi. L’Unione Sovietica, ad esempio, almeno fino all’epoca pre-staliniana, riuscì a ottenere una grande partecipazione dalle proprie menti creative più fulgide, che dagli ideali marxisti riuscirono a trarre ispirazione per i propri lavori, ottemperando così anche agli obiettivi di propaganda del partito. Eppure l’artista, soprattutto il genio (cit.), ha sempre cercato di svincolarsi da ogni limite imposto, sia esso un monarca o un uomo di Stato, richiamando più o meno involontariamente, soprattutto nel Novecento e in particolare in Italia, la scure della censura da parte di quest’ultimo.
Oggi, va da sé, le dinamiche non sono però più quelle di un tempo. Fra sgravi fiscali e sovvenzioni dirette, l’aiuto delle istituzioni può portare realmente ad un miglioramento nei confronti dei propri creativi, che nel XXI secolo più che in passato hanno bisogno di liquidità, di soldi per portare avanti i propri progetti. Quindi ben vengano le aperture da parte di Franceschini riguardo forme di espressioni emergenti, come quelle inerenti al mondo videoludico; e ben vengano anche le ulteriori risorse stanziate al cinema italiano, quasi raddoppiate, seppur in modo indiretto, dopo l’introduzione del Tax credit, il credito d'imposta al cinema. Se si limitasse ad elargire risorse, in modo però controllato e non scriteriato come invece spesso accade in Italia, lo Stato sarebbe il miglior partner di ogni produzione, che sia essa denominabile come artistica o d’intrattenimento. Invece non di rado strafà, si impone in modo autarchico, tramutando quasi in realtà l’iperbole di Carmelo Bene, com’è infatti accaduto di recente con l’aggiornamento dello Tsumar, il Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, altrimenti noto oggi come riforma Franceschini.
La riforma Franceschini si snoda principalmente su due punti. Il primo prevede che tutti i broadcaster mettano a disposizione tra il 10 e 15% dei propri introiti netti nell’acquisto o nella produzione di opere made in EU (tra il 15 e il 20% per quanto riguarda invece la Rai). Un’imposizione che, seppur possa apparire comprensibile per la natura pubblica della Rai, risulta di contro paradossale se riferita alle reti private, inserendosi su quella scia antiglobalista, solitamente criticata a reti unificate quand’è tuttavia portata avanti da Trump e dal suo “America First” – come ben sottolinea Pierluigi Battista in un suo corsivo pubblicato sul Corriere. Il secondo punto, che si ricollega al primo ma riguarda più direttamente i consumatori, è invece inerente all’obbligo di programmazione, all’interno dei palinsesti di prima serata dei broadcaster italiani, di almeno un film o una fiction italiana per ogni canale TV da qui fino al 2020. Ed è in questo frangente che il termine precedentemente utilizzato, quello di anacronistico, viene portato all'esasperazione. Nell’epoca di Netflix, di Amazon Prime Video e della digitalizzazione di massa, il Ministero del Turismo e dello Spettacolo obbliga dunque le reti televisive operanti sul territorio, la cui proprietà è privata (non va dimenticato), a trasmettere quelle stesse produzioni che, magari controvoglia, gli stessi broadcaster hanno originato, creando così un ipertrofico circolo vizioso che potrebbe anche sfociare nella speculazione più sconsiderata.
È così che si riuscirà a rinnovare quell’ecosistema televisivo italiano che, talk show dopo talk show, appare sempre più fiacco e logoro, stretto com'è ai fianchi da una digitalizzazione cui non sembra reggere il colpo, se non a suon di hashtag invasivi? I dubbi sono forti. Non più rosea è la situazione del cinema, a dispetto dello stanziamento di nuove risorse, come scritto in precedenza. Nei cinema francesi, durante il 2016, sono stati venduti ben 213 milioni di biglietti, come testimonia il grafico in alto; più del doppio rispetto all’Italia, ferma a 105 milioni. I film italiani prodotti lo stesso anno, comprese le coproduzioni, sono stati 208; in Francia, invece, 283. Inferire fra questi due fattori è tuttavia difficile per via di una mancanza di dati inerenti a quanto, effettivamente, ogni film prodotto sul suo nazionale abbia contribuito ad ogni biglietto venduto. Un dato interessante, però, ce l'abbiamo. A inizio 2016 abbiamo assistito sul suolo italico all’ennesima prestazione monstre di Checco Zalone ai botteghini, che ha venduto da solo quasi nove milioni e mezzo (dati ANICA, Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive) dei circa centocinque venduti nell’anno solare in Italia; circa il 9% dei biglietti venduti nei cinema italiani durante il 2016 è dunque da intestare a Quo Vado?, quasi uno su dieci. E di Checco Zalone, nel bene e nel male, ce n’è uno solo. Dunque, anziché sulla quantità, non sarebbe meglio, forse, puntare più banalmente sulla qualità? Per approfondimenti, questa è una lettura consigliata.