Racconti dall'ospizio #97 – Videogiochi sotto l’albero
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Buon Natale!
Ci state leggendo il pomeriggio del 25 dicembre, magari con la panza piena di cibo e prossimi allo svenimento, o ritagliandovi uno sguardo sullo smartphone mentre siete di turno a lavorare da qualche parte? Ottimo: siamo qui per voi! Ci state leggendo nei giorni successivi? Va benissimo lo stesso, ci mancherebbe. Del resto a Natale ci si vuole tutti più bene. Credo. Comunque, quello che state per leggere è un Racconto dall'ospizio un po' particolare. Un racconto di gruppo, che nasce da un'idea del Peduzzi – non a caso il primo contributo è il suo – e che ho trasformato in questa cosa qua spaccando le palle a mille e più persone. L'idea è semplice: ciascuno racconta alla sua maniera, e magari mettendo in pratica il dono della sintesi (credici), un episodio videogiocoso natalizio che gli è caro. Tutto qua. Dato che ci siamo mossi un po' tardi ma ci tenevo a pubblicare il pezzo oggi, appunto lunedì 25 dicembre, l'articolo è potenzialmente in divenire: se qualche ritardatario mi manda il suo contributo nei prossimi giorni, perché – pensa te – sotto Natale c'aveva da fare, lo aggiungiamo. Non si chiude la porta mai a nessuno, qui.
E insomma, buone feste, buone pappe, buona lettura e...
Ri-buon Natale!
Caro Babbo Natale, da ragazzino ero proprio uno schifo e mi merito tanti schiaffi
Associare il Natale a qualche console, gioco o momento videoludico particolare, magari dell’infanzia o dell’adolescenza, è senz’altro una cosa piuttosto comune per un videogiocatore. Io stesso potrei fare una lista abbastanza lunghetta dei miei Natali di giochini. Eppure, se proprio devo sceglierne uno, prendo a mani basse quello del 1989.
Durante l’inverno di quell’anno, mentre il mondo intero guardava il muro di Berlino che veniva smantellato un pezzetto alla volta, una canzone di David Hasselhoff alla volta, la mia unica preoccupazione era quella di possedere un Commodore 64 tutto per me. Fino a quel momento, avevo sempre avuto libero accesso a quello di mio zio, che abitava nella casa a fianco alla mia; ma ormai il desiderio di possederne uno era diventato inarrestabile. Conseguentemente, a ridosso delle feste, avevo iniziato a rompere le scatole ai miei genitori con richieste insistenti, senza nemmeno preoccuparmi di nascondere che il computer non lo avrei adoperato per fare i compiti o la dichiarazione dei redditi, ma esclusivamente per giocare.
Come di consueto per l’epoca - parecchio tempo prima che la sera della Vigilia si trasformasse in un’occasione di bagordi, grappe e vin brulé - la mattina di Natale mi alzai prontamente alle sei del mattino per essere il primo a grufolare tra i pacchetti sotto l’albero. Una volta identificato e scartato il più grosso, e svelato l’agognato computer nella sua versione “C”, quella più bassa e simile all’Amiga, con tanto di registratore, joystick (un Cruiser!) e la bellezza di cinque giochi, beh, feci esattamente L’ESATTO CONTRARIO di quello che qualsiasi altro ragazzino nella mia situazione avrebbe fatto: scoppiai a piangere.
A tutt’oggi ancora non mi riesce di trovare la ragione per un comportamento tanto irrazionale (e, diciamocelo, pure da grandissimo stronzo).
Probabilmente erano i primi segni di quel rapporto problematico con i regali che mi accompagna ancora oggi: mi diverto molto a farli, a sceglierli e ad azzeccarli, non tanto per amore del prossimo, ma perché la cosa solletica la mia vanità. Eppure riceverli, boh, non saprei spiegarlo per bene, ma diciamo che un po’ mi imbarazza.
Tornando a quella mattina di Natale del 1989, credo che l’idea che mio papà - un uomo simpatico, anche cazzone ma un po’ sulle sue; uno sportivo amante della montagna, del calcio, al massimo dei flipper, ma quanto di più lontano possa esistere dal mondo dell’informatica - qualche giorno prima avesse infilato il naso tra gli scaffali del reparto videogame di Mantovani Giocattoli, su al terzo piano, nel “mio mondo”. Si fosse relazionato con lo spocchiosissimo commesso, trattenendosi dal rompergli quegli stramaledetti occhiali da nerd dopo la terza domanda trabocchetto, uscendo infine con sottobraccio il “Commodore 64 di cui si parla tanto” e i giochi (li ricordo tutti: Batman: The Movie, Altered Beast, Ghouls 'n Ghosts, Side Arms e Impossible Mission II), boh, credo che mi abbia fatto sentire un po’ in colpa e un po’ commosso, con un un dosaggio strano delle due cose.
Da allora sono passati tanti anni, ma ancora adesso ricordo bene l’espressione sconcertata di mio padre. Probabilmente, mentre suo figlio dodicenne scemo se ne stava lì a piangere senza motivo dopo aver scartato il regalo tanto desiderato, lui si stava pentendo di non aver scelto la strenna in un negozio di ferramenta. Chessò: un martello o un trapano elettrico con cui avrei potuto bucarmi la testa.
- Andrea Peduzzi
Quella volta che mia nonna se le diede con mio nonno
Vorrei tanto avere una storia natalizia legata al mondo dei videogiochi. Nella mia vita ne ho lette tantissime, dalle più tristi (di bambini che facevano gli auguri di Natale alla propria console, giuro che non scherzo) alle più nostalgiche (quel particolare gioco che tiri fuori a ogni Natale), eppure io non ne ho una. Perché è tradizione della mia famiglia ritrovarsi ogni 24, 25, 26 dicembre a casa di mia nonna.
Ora, non è che mia nonna viva in mezzo alle montagne, anzi, se ne sta in una garbata periferia romana, ma trasportare da lei l’attrezzatura necessaria a giocare significa affrontare tre punti critici:
spostare i mobili di casa per recuperare la cavetteria che ormai fa parte dell’UNICO GROVIGLIO di cavi che contiene tutte le risorse energetiche che permettono alle console di funzionare;
rischiare che nello spostamento la medesima console si rovini, venga sbatacchiata più del dovuto, esploda, venga mangiata dal cane e via dicendo, con tutta una serie di disgrazie che sembrano impossibili finché, frechete, non ti capitano alla vigilia di Natale;
qualora anche si riuscisse a trasportare il bambinello senza conseguenze, si riuscisse ad attaccarlo correttamente ai mezzi televisivi della nonna, che sembrano usciti da un racconto di Jules Verne, e si facesse partire il giochino, bisognerebbe combattere contro una schiera di cuginetti frignanti e desiderosi di monopolizzare il dispositivo.
Insomma, come diceva un famoso trio quando ancora faceva ridere, dalla mia nonnina si fanno due cose: si lavora e ci si rompe i coglioni. Specialmente la seconda cosa, dato che esiste la tanto vituperata tradizione della tombola. Gli adulti ci giocano perché intendono così consentire ai più piccoli una lieve distrazione dalla depressione assoluta che leggono negli occhietti incantati a rimirare il fuoco che arde nel caminetto; i bambini ci giocano per fornire agli adulti una motivazione per alzarsi dal divano, dove sono lentamente sprofondati nell’incoscienza post-prandiale. I ragazzi (categoria dalla quale mi sento ancora rappresentato) ci giocano perché altrimenti diventano bersaglio di adulti e bambini che li accusano di ignavia.
Questo regime del terrore, però, può essere tollerato al massimo per un paio di partite. Ecco perché alcuni dei cugini più coraggiosi hanno deciso negli anni di correre i rischi sopra citati e portare una console il giorno della vigilia. I più indomiti hanno acconsentito perfino a parcheggiarla a casa della nonna per i due giorni successivi, onde evitare di ripetere i punti A e B.
Il titolo prediletto per il tour de force natalizio doveva permettere almeno un multiplayer locale di due persone, che si sarebbero sfidate in eccitanti tornei all’ultimo sangue, nei quali lo zio quarantacinquenne era costretto a far vincere il nipotino di sei anni per non subire le lagne. Titolo di punta era ovviamente PES, e la situazione zio-nipotino era sì frustrante, ma comunque meno noiosa della tombola. Vi giuro che vedere un uomo sulla cinquantina ridotto a correre nella propria porta palla al piede per far passare in vantaggio un bimbo è deprimente, sì, ma meno di tua zia ottuagenaria che chiede se “il 54 è già uscito” al secondo tombolino estratto.
Comunque, se avete letto il titolo, voi state aspettando le botte, ed è giusto così, perché è l’unica mezza storia natalizia che ho da raccontare. Ecco il mio fantasma del Natale passato: un anno particolarmente avaro di parentame, decisi di portare il mio nuovo Nintendo Wii. Non c’erano cugini, cuginetti e bambini nei paraggi, e quindi ero piuttosto sicuro che i miei Wiimote sarebbero finiti solo nelle mani di chi aveva almeno l’età legale per guidare la macchina.
Attaccata la console al televisore grande in salotto, cominciai a ricreare con particolare minuzia tutti i Mii dei miei parenti. Mia nonna era già piegata in due mentre disegnavo le forme rotondette di mio padre e mio zio. Qui si apre una piccola parentesi su mia nonna, vera protagonista del racconto già dalla prima riga, ma che ora assume un’importanza topica. Dovete sapere che lei è una romana verace, una che a ottant’anni è capace di dimostrare la freddezza di un killer (allego video a testimonianza). Una che quando le regali qualcosa, nel momento prima di scartarlo, ti guarda con rimprovero dicendo: “Speriamo che me piace”. La sua acredine è diretta indifferentemente verso tutto il mondo, ma trova ovviamente maggior fervore verso le persone che la circondano quotidianamente. E, tra questi, il mio nonnino.
Il match del secolo, quindi, era già scritto: nonna VS nonno. Abbiamo selezionato gli avatar e li abbiamo fatti scassare di botte. Certo, era finzione, ma mia nonna si è impegnata come se avesse dovuto darle di santa ragione ai fascisti che occuparono il paesino dove viveva con le sorelle quand’era bambina. Una furia, un destro-sinistro che nemmeno lo stallone italiano. È stato un momento genuinamente divertente; eravamo tutti con le lacrime agli occhi mentre mio nonno veniva tempestato di cazzotti. Dopo la vittoria, lei ha deciso di rendermi felice dicendo che quel gioco lì sì che era bello, non come tutte le altre cazzate cui ero solito giocare.
Il mio fantasma del Natale presente vorrebbe che portassi la nuova arrivata Switch, quest’anno, così da nascondermi durante la solita partita a tombola ed evitare il compromesso sociale. Ma rivangando questa storia mi è venuta voglia di rispolverare il Wii e organizzare la rivincita del secolo.
- Fabio Di Felice
Una veranda e due tazze di grog
L’esperienza videogiocosa natalizia del mio cuore risale al 1990, con The Secret of Monkey Island e il mio superamico Mauro (che non legge Outcast e non sa neppure che robba è).
Ci giocammo a casa sua, in multiplayer cooperativo, all’alba dei computer domestici, relegati nelle anguste e gelide verande, a loro volta relegate a rimesse di scope, detersivi e vecchie diapositive. La solita, vecchia storia di mondi virtuali e passioni digitali ancora relegate nei sottoscala del sociale. Comunque sia, era la versione per MS-DOS, probabilmente piratissima, spalmata su migliaia di floppy. Furono venti giorni (o giù di lì) meravigliosi e intensi, fatti di animosa collaborazione e pane e Nutella, tra dizionari d’inglese, enciclopedie cartacee e tutta un’ormai desueta scomodità videoludica (veranda, freddo, sgabelli di legno, monitor minuscoli) allora perfettamente magica.
The Secret of Monkey Island trascende i limiti dell’esperienza videogiocosa natalizia del mio cuore, diventando l’esperienza videogiocosa tout court che porterò sempre con me, instancabilmente, anche se un giorno dovessi arrivare fino ad Ancona.
- Lorenzo Antonelli
Esplorare lo spazio nel profondo della notte
Ho avuto la fortuna (?) di potermi godere la mia passione per i videogiochi fin da molto piccolo, senza che i miei genitori abbiano mai avuto nulla in contrario, anzi. Ogni tanto riuscivo anche a coinvolgere mia madre nelle partite, nonostante non fosse proprio materia di suo interesse, e sono abbastanza convinto che, se fosse ancora dei nostri, le piacerebbero molti videogiochi moderni. Probabilmente anche a mio padre ma chissà, chi se lo ricorda. Ad ogni modo, sto divagando. Il punto di questo incipit è che, essendo quella la situazione, inevitabilmente il mio Natale ha spesso avuto a che fare coi videogiochi. Ricordo per esempio quella volta che, già flippatissimo grazie ai cabinati in cui ogni tanto spendevo soldi nei baretti e negli stabilimenti balneari, mi ritrovai in casa la mia prima macchina da gioco: un Atari 2600 con una trentina di cartucce o giù di lì, sbolognatomi da mio zio che era passato al Commodore 64. Era un Natale, penso, e mamma mia che momento clamoroso! Però non è il Natale di cui voglio parlare.
No, quello di cui voglio parlare è un Natale in cui ho fatto qualcosa di non particolarmente originale, qualcosa che probabilmente hanno fatto, almeno una volta nella vita, tutti quelli che seguono Outcast. Fu il Natale in cui uno fra i pacchetti sotto l'albero nascondeva The Dig. Non ho certezze al riguardo ma, visto che l'avventura grafica di Lucasarts uscì a novembre del 1995, mi sento di dire che fu proprio il Natale del 1995. Del resto, pochi mesi prima avevo acquistato un lettore di CD-Rom (4X, una bomba) anche in previsione di The Dig. Oltre che per giocare a quella cosa clamorosa di Star Trek: The Next Generation – A Final Unity. Fra l'altro, avevo a malapena RAM a sufficienza per farlo girare, The Dig, e dovetti fare i soliti maneggi clamorosi a base di MEMMAKER. Ah, quanti ricordi. Ma sto divagando.
Quell'anno, per qualche motivo, due amici vennero a trascorrere la vigilia di Natale a casa nostra. Uno era probabilmente il mio migliore amico per la pelle inseparabile fratelli di sangue fin dai tempi della seconda media. Oltretutto condividevamo la mania totale per i videogiochi: stiamo parlando di uno che mi telefonava alle tre di notte per dirmi che aveva scovato il passaggio segreto di The Colonel's Bequest e io, invece di mandarlo affanculo, lo ascoltavo affascinato, lo salutavo e poi accendevo il PC. L'altro era una conoscenza più recente, ma si quagliava bene e, fra l'altro, qualche anno dopo finimmo pure a convivere per un po'. Era meno appassionato di videogiochi, ma comunque ci si dilettava. Ovviamente, come accade talvolta nella vita, ho poi completamente perso di vista entrambi. Ma quel giorno eravamo lì, assieme, in perfetta sincronia.
Una volta assolti i doveri da cena super abbondante di matrice abruzzese frechete, ci lanciammo subito all'avventura. Insomma, oh, The Dig, il nuovo gioco di Lucasarts, una produzione attesissima e con alle spalle nomi clamorosi. Non erano ancora i tempi di internet e dell'hype montato a valanga, ma leggevo qualsiasi rivista di videogiochi riuscissi a recuperare ed ero gasatissimo: le avventure grafiche erano forse il mio genere preferito e i giochi Sierra e Lucas erano per me il non plus ultra. Quindi, insomma, grande gasamento. Installammo, MEMMAKERAMMO, ci preparammo, avviammo e fu subito magia. Che atmosfera, che fascino, che coinvolgimento incredibile. The Dig, nei miei ricordi, è un gioco di una bellezza clamorosa. Magari, se ci rigiocassi oggi, mi renderei conto di tutti i suoi difetti e lo amerei molto meno, ma all'epoca mi lasciò in estasi suprema che è propria dell'idillio dell'amore. Mamma mia.
Partimmo a giocarci senza tregua, senza soluzioni sotto mano, senza gamefaqs, senza internet. E NON SMETTEMMO. Avanzavamo imperterriti, ci godevamo la trama, facevamo spedizioni in cucina per le provviste, discutevamo animatamente per affrontare gli enigmi. Le ore trascorrevano imperterrite, la stanchezza si impadroniva di noi, iniziavamo a sbattere la testa contro il muro della difficoltà di alcuni passaggi. Organizzammo un sistema di turni, manco fossimo accampati in pieno deserto e intenti a fare la guardia per proteggerci da attacchi nemici. Quando ci si bloccava pesantemente su un enigma, due persone continuavano a giocare, mentre la terza si concedeva un pisolino a letto, con l'accordo che, in caso si foste riusciti a proseguire, bisognava svegliare chi si era addormentato.
Fu un viaggio epico che continuò per tutta la notte, fino al giorno dopo. E i ricordi si fanno lì un po' fumosi. Posso sbagliarmi, ma credo che a un certo punto, quando ormai era piena mattina, decidemmo di farci un paio d'ore di sonno tutti assieme. Forse scattò addirittura il patto di sangue del "Allora ciao, fermo tutto, andate pur a casa, ci rivediamo domani per finirlo." Oppure no, forse, anzi sicuramente, ne sono convinto, arrivammo fino in fondo senza staccarcene mai. Non ne ho idea. Non ne ho veramente idea. Però mi ricordo di quella notte, e di quel gioco, con grande affetto, come di qualcosa che ha un posto speciale nel mio cuoricino. Nonostante non veda più quelle persone da ormai parecchi anni, e non ci si sia neanche lasciati benissimo. Nonostante abbia poi follemente prestato la mia copia di The Dig a un parente lontano che scomparì nel nulla e la cosa mi faccia parecchio rosicare, perché ovviamente a quella copia, a quel regalo di mia madre, alla copia del gioco che fu protagonista di quella notte natalizia, fossi molto legato. Nonostante poi l'abbia ricomprato qualche tempo fa su eBay e tanti saluti. Nonostante tutto. O forse anche per questi motivi.
Quella notte, quel gioco, quel trio di sciamannati, quel Natale.
Quanto amore.
- Andrea Maderna
Un anno mi hanno regalato Mario Kart: Double Dash
Come tutto ebbe inizio
Paradossalmente, di ricordi natalizi legati ai videogiochi ne ho pochissimi, non tanto perché non giocassi durante le feste, ma perché solitamente non ricevevo videogiochi come regalo a Natale (a parte Rambo e Superman per Commodore 64, come ho raccontato parlando dei vecchi titoli ispirati agli eroi DC).
Però, tutto questo mio interesse verso i computer, i videogiochi e comunque verso il mondo dell'informatica nasce proprio un Natale di tantissimi anni fa, neanche riesco a ricordare l'anno preciso, quando con i miei genitori andammo in un negozio in centro a Torino a comprare il primo home computer di casa nostra: il Commodore VIC-20. Ricordo a malapena la cifra che mio padre sborsò al tempo, forse qualcosa come quattrocentocinquanta mila lire, una roba che se rapportata ad oggi, probabilmente, ci si compra un'auto, ma a me non interessava. Per me era tutto bellissimo, anche il fatto che non ci fosse il registratore di cassette nell'acquisto non era un problema, perché insieme al computer avevamo comprato anche due cartucce (una era Gorf) e comunque, dopo poche ore, ero già davanti alla TV a ricopiare un listato in Basic trovato su una rivista, ben sapendo che, appena avessi spento il computer, tutto il lavoro si sarebbe volatilizzato in un amen.
Visti gli altri e bassi scolastici dovuti (anche) ai videogiochi, non so se tornando indietro nel tempo i miei rifarebbero la stessa scelta, magari punterebbero sulla macchinina radiocomandata che volevo tanto, ma sicuramente per me è stato come aprire una porta su un mondo magico, che ancora oggi mi accompagna nei momenti più spensierati.
- Davide Moretto
Vacanze di Natale nella giungla
Un pochino baro, con questo mio racconto, per un motivo semplice: dove abito io, a Natale si ricevono pochi regali, quasi nulla, da bambini. Il fatto è che il 13 dicembre, qui, si festeggia Santa Lucia, che prevede lo svegliarsi la mattina presto di quel giorno e trovare la tavola imbandita di dolci e giochi, a patto di essersi comportati bene e di averle almeno scritto una lettera. Esatto, le quote rosa che fregano Babbo Natale. Quindi vi racconterò della mattina del 13 dicembre 1999, quando trovai, assieme ad altri regali espressamente richiesti, un regalo extra. Era Disney's Tarzan per la prima PlayStation. Avevo dieci anni e frequentavo la quinta elementare ma, come tutti, non chiedevo mai di stare a casa in quel giorno speciale (che a differenza della mattina di Natale, prevedeva e prevede tutt'ora il dover andare a scuola): piuttosto, preferii andarci per poter sapere cosa avevano ricevuto gli altri. Solitamente si portava qualche gioco con cui divertirsi durante l'intervallo; io e un manipolo di altri bimbi già nerd portavamo le istruzioni dei videogiochi ricevuti, per leggerle e fantasticarci. Prima di andare a scuola, però, essendomi alzato prima del solito, ebbi il tempo di provare il gioco di Tarzan, facendo i primi due livelli. La musica del secondo livello mi entrò così tanto in testa che ancora adesso capita mi si ripresenti non richiesta, finendo col doverla cercare per ascoltarla e farla uscire da lì. Quindi, paradossalmente, quando penso alle feste natalizie, tra le tante musiche che mi vengono in mente, c'è anche questa, in ricordo di quella mattinata. Il gioco oggi appare di un legnoso al limite dalla vergogna, pur tirando fuori una realizzazione grafica eccelsa per l'epoca (Disney scuciva un bel po' di dindi per i tie-in dei suoi film) e, ovviamente, una colonna sonora pazzesca, che vale quasi tutta l'esperienza. Scoprii solo moltissimi anni dopo che era Rob Hubbard (e scusa se è poco) il compositore che vagava nella mia mente e nel mio cuoricino di bimbo di dieci anni, destinato a non uscirne più. Vado ad ascoltare di nuovo quella traccia e ve la linko qui, che così magari stregherà anche il vostro Natale.
- Marco Esposto
Polaroid con Babbo Natale
Natale e videogiochi sono un binomio indissolubile della mia vita. In un certo senso hanno scandito le diverse età della crescita e, rappresentando sempre un regalo immancabile sotto l’albero, nelle polaroid spacciate dal mio fantasma del Natale passato non c’è nulla che ricorra più spesso. Tutto comincia nel 1991, quando Babbo Natale (per cui nutrivo un sentimento di paura e rispetto che mi portava a vivere quei momenti con ansia e attesa) tira fuori in maniera goffa e con i suoi soliti mugugni indistinti un pesante scatolone: è l’Amiga 500+ e la mia vita cambia drasticamente. La mia prima nottata con i videogiochi, il primo vero amore, il primo passo verso la perdizione. L’Amiga è stata il computer dell’infanzia, dell’innamoramento, della scoperta, delle sfide con il figlio del mio vicino di casa che, guarda caso, mancava sempre di pochi minuti l’arrivo di Babbo Natale. Poi cresco, Babbo Natale viene sostituito dalla comparsa, altrettanto magica, dei regali in un sacco fuori dalla porta di casa, e sono gli anni della PlayStation e del PC, l’inizio dell’hype vero, delle attese per le conversioni dei titoli NTSC (ché non ho mai voluto modificare la Play) e l’arrivo dei giochi visti ai reportage dell’E3. Decidere cosa scrivere nella letterina a Babbo Natale prevede confronti durissimi, scelte importanti, e ancora mi chiedo perché io abbia chiesto davvero Adidas Power Soccer. Però nel 1998 arriva Libero Grande, e che ve lo dico a fare. Dall’arrivo di PlayStation 2, nel 2000, inizia l’era della consapevolezza, quella in cui mio padre mi chiede direttamente cosa voglia per Natale (cosa che nel 2005 porterà alla folle corsa per avere una PSP), e sebbene la magia inizi a scemare un po’, sono anche gli anni dei giochi desiderati con mia sorella, ed è proprio il 2001 uno dei Natali videoludici che ricordo con più calore. Fra i giochi appena scartati c’è Baldur’s Gate: Dark Alliance, hack and slash semplice e immediato, ma assolutamente pregevole in multiplayer locale, che arriva negli anni di D&D con gli amici, della mania del fantasy e del “qualsiasi-cosa-coi-draghi-è-bellissima”. Lo lancio, chiedo a mia sorella di provarlo con me e diventa a tutti gli effetti la “nostra” nottata. Tiriamo fino all’alba, con crisi glicemica da pandoro che può solo accompagnare. Dal giorno successivo parliamo come Sleivas, e ovviamente divoriamo tutto il gioco durante le feste. Succederà lo stesso con il seguito e anche con Champions of Norrath, nel corso degli anni, sempre durante le feste, con lo spirito che ci riporta ogni volta ai momenti passati in sala giochi con Golden Axe, quando a stento arrivavo al cabinato. Dalla generazione PlayStation 3 e Xbox 360, i videogiochi iniziano a uscire un po’ dal Natale, ma mai completamente (tanto che con Wii casa mia sembrava proprio quella della pubblicità, con tutti a giocare a bowling). Restano un tacito simbolo tra me e mio padre, magari ce li regaliamo a vicenda, ma iniziano gli anni dei regali utili, o delle collette familiari per tabletcellularicosecostose, perché poi tanto uno lavora e la maggior parte dei giochi se li compra da sé. Che è vero, per carità, eppure difficilmente resisto alla tentazione di avere un videogioco sotto l’albero, o di regalarmene da solo uno anche in formato digitale. Perché, per mia fortuna, i videogiochi sono una cosa di famiglia, come il Natale, e raccontano a tutti gli effetti la mia storia.
- Davide Mancini
Quando tutto sembrava finito
Quand'è che tutto sembrava finito? Era il Natale del 1994. Tutto sembrava finito perché io e lei ci stavamo lasciando. E, come spesso succede quando scoppia una crisi, si compiono gesti di incredibile violenza o di incredibile dolcezza. Dopo l'ennesimo litigio, quello che informalmente sanciva la fine della nostra storia, lei mi sorprese regalandomi un Game Boy. Non avevo mai avuto un Game Boy! Certo, avevo giocato a scrocco fino all'inverosimile, ma di colpo ero un Proprietario di Game Boy. Liscio, GiG, primo modello, che lei aveva trovato a 99.000 lire, ché nel 1994 il Game Boy non se lo filava più nessuno - e per la renaissance pokémonita si sarebbe dovuto aspettare ancora un bel po'.
E insomma, lei mi fece questo regalo, comunque fuori scala per le mie e le sue possibilità economiche da universitari squattrinati. E ne conseguì un ultimo struggente momento di tenerezza e desiderio, chiusi nella sua stanza singola in affitto insieme ad altre studentesse che probabilmente, a quel punto, ci consideravano dei pazzi bipolari. Non sbagliando.
Quando infine me ne andai, chiudendomi alle spalle la porta di quella stanza singola, piangendo io, piangendo lei, mi sentii di colpo leggerissimo. Il sesso durante le crisi o financo durante gli addii ha una viscosità inebriante, ma anche insostenibile, e infatti è un pretesto che ti spinge a dire: addio. Me ne andai a piedi lungo i portici, faceva freddo per le strade, faceva freddissimo quando rientrai in casa. I miei coinquilini se ne erano già partiti per le feste. Sul tavolo della cucina vidi il Game Boy, ancora inscatolato. Manco l'avevo aperto, e a che pro? Non mi aveva regalato nessun gioco, lei. Non aveva idea di cosa fosse un Game Boy, sapeva solo quanto mi piacessero i videogame. Abbracciai la scatola e piansi. Per lo meno con la sana consapevolezza che quelle lacrime erano puramente nervose. Senza amore o voglia di tornare da lei. Solo la stanchezza della crisi che si protrae, a spizzichi e singulti, anche quando les jeux sont faits.
Tornai fuori. Alla cartoleria Sterlino, in via dell'Indipendenza, ricordavo di aver visto alcuni giochi per Game Boy in vetrina. Una consapevolezza maturata distrattamente, giusto per la banda verticale con su scritto "GAME BOY" vista di sfuggita, correndo a lezione. Stavolta, però, ero un Proprietario di Game Boy. Wow. Il piacere intrinseco della cosa era superiore alla gratitudine verso lei, verso quell'atto inaspettato e squilibrato, come l'amore post-adolescenziale sa solitamente essere. Mi appiccicai alla vetrina di Sterlino. Eravamo sotto Natale, la vetrina era ricolma di cartucce, con la parte più prestigiosa dedicata a Donkey Kong Country per Super Nintendo, uscito da appena quattro settimane. Ma la parte bassa, quella a portata di bambino, era tutta per il Game Boy. E... che prezzi, Cristo. Il prezzo medio sembrava 75.000 lire. E chi le aveva? Dovevo ancora prendere il biglietto del treno per tornarmene a casa per le feste! Ero come un golfista sul campo più bello del mondo, col migliore set di mazze... e senza nemmeno una pallina.
Tornai a casa con un senso di frustrazione immane. Rubai quattro pile Stilo dallo stereo di uno dei miei coinquilini e le misi nel Game Boy. Lo accesi e spensi diverse volte solo per sentire il "da-diiing!", solitamente piacevole preludio a una giocata coi fiocchi, ma non per me, non in quel momento. Nella penombra della sera fredda di dicembre, mi distesi sul tappeto del coinquilino e abbracciai il Game Boy, singhiozzando. Non mi ero mai sentito tanto solo in vita mia.
Decisi di partire quella sera stessa: fanculo le lezioni restanti, fanculo gli auguri agli amici, la città si era già mezza svuotata, in ogni caso.
Mi diressi verso la stazione, obbligatoriamente passando ancora una volta davanti alle vetrine di Sterlino. Le scrutai con odio e...
L'allestimento era uguale, no, aspetta, quasi uguale. Lo notai subito, in basso a destra, l'ultimo gioco della vetrina. Bubble Bobble Part 2. Eh? Cos- non esiste Bubble Bobble Part 2! Esiste Rainbow Islands, che è infatti sottotitolato The story of Bubble Bobble 2, ma... Be', era da un po' che non leggevo riviste di videogame. Evidentemente questo Part 2 era una specie di spin-off. L'art di copertina era occidentale e pertanto il Male, ma il logo era quello Taito, doveva essere roba buona. E... mioddio, costava SOLO 35.000 LIRE! In quel momento non potevo saperlo, ma era un gioco uscito oltre un anno prima. Si trovava là come rimanenza, scarto di magazzino, qualcosa di cui Sterlino voleva sbarazzarsi. Vendendolo a ME e solo a ME. Era palese, archetipico, mistico.
Avevo i minuti contati, dovevo correre in stazione per prendere biglietto e conseguentemente treno. Entrai, chiedendo a gesti alla commessa il gioco in vetrina. Completamente invasato ed emettendo suoni gutturali, riuscii a farmi capire. Ecco tenga grazie arrivederci vado ciao. Corsi verso la stazione manco avessi le ali sotto i piedi. Un gioco inedito della mia serie preferita, di cui ignoravo l'esistenza, ed era ora nel mio zaino, e l'avevo pagato meno della metà del prezzo di qualsiasi altro gioco in vetrina. Corsi così velocemente che ebbi tutto il tempo di fare il biglietto e anche di acquistare un pacchetto di Diana blu - con tutti i soldi che avevo appena risparmiato!
Salii sul treno. Il freddo rendeva le luci della stazione ancora più gialle, il cielo pareva vinaccia, tutto era giusto. Tirai fuori il Game Boy dalla borsa, inserii la cartuccia. Il treno partì. Misi le cuffie. ON. "Da-diiing!" Il logo Nintendo, e poi il logo Taito. Il senso di essere in armonia con tutte le cose, e che tutte le cose fossero in armonia tra loro. Mentre il treno prendeva velocità, mi misi a piangere e a ridere nello scompartimento vuoto, lasciandomi alle spalle Bologna e la crisi, e andando dritto dritto dentro Trieste e il Natale.
Via indipendenza 66 oggi. La presenza di un corriere BRT chiarisce che oggi, i giochi, i bambini se li prendono su Amazon.
- Andrea Babich
Una Wii rossa e una nuova speranza
La stanza era fredda e illuminata solo dalla luce delle candele. L’avrei vista poco durante le feste, quindi, per lo scambio di regali di fine anno, avevo deciso di fare qualcosa di speciale, irrompendo di nascosto nella mia stanza da fuorisede a Napoli, mentre i miei coinquilini erano già partiti per le feste. Era riuscita a rendere romantico, come piaceva a lei, anche un vecchio appartamento malconcio al settimo piano di Via Leopardi, nonostante le macchie di muffa agli angoli, che però erano abilmente mascherate dalla flebile luce delle fiammette che la circondavano. Entrai ed era seduta sul mio letto, bella di quell’innocenza un po’ goffa, che solo i vent’anni ti permettono, col suo improvvisato costume da Babbo Natalina un po’ risqué. Non proferii parola. Ci provai ma quel che venne fuori non aveva nulla di umano. Mi salutò e mi porse un pacchetto: “Auguri, Bellotta!”. Sì, nessuno che mi conosca davvero mi ha chiamato con altro nome che non sia quello del mio buffo e apparentemente musicale patronimico. Provai invano a chiudere la mascella mentre il cuore mi scoppiava con la forza di mille supernove. Il pacchetto che mi aveva consegnato aveva forma e peso familiari, stretto nella sua carta natalizia. “Non può essere!”, pensai, “È troppo!", e invece era così. Una Wii edizione speciale Super Mario, rossa fiammante, lucida come non sarebbe mai più stata, finalmente mia, come nei miei sogni bagnati da studente nerd squattrinato. La abbracciai, la baciai (lei, non la Wii) e, se mi conosco abbastanza, probabilmente urlai come una scolaretta. Ovviamente venne anche il momento del suo regalo ma non ne fece un dramma, o non lo so, perché la mia mente era comunque altrove. In ogni caso, alla fine di tutto c’era solo un’ovvia soluzione all’equazione “due ragazzi + soli in casa + luce di candela + Babbo Natalina” e quindi la risolvemmo nell’unico modo possibile, da bravi fisici quali eravamo e siamo.
Passò una quantità indefinita di tempo, poi ci ritrovammo soli, io, lei, una Wii mezza incartata e un vecchio televisore a tubo catodico. La guardai e me lo lesse negli occhi: “Se vuoi giocare non mi offendo, anzi... ”. Non me lo feci dire due volte: in preda alla frenesia che mi caratterizza in queste situazioni, presi a piazzare cavi, cavetti, SCART e configurazioni varie. Infine inserii il disco di New Super Mario Bros. Wii, le porsi con naturalezza il secondo controller e le chiesi “Ti va di giocare con me?” con la stessa solennità con cui le avrei chiesto di sposarmi. La cosa aveva particolare importanza e peso, perché lei non aveva mai giocato a nulla in vita sua, e anzi in parte rigettava questo mio lato uber-nerd, pur sforzandosi di sopportare la mia irruenta capacità nerdificatrice.
“Sì, dai!” rispose, rendendomi ancora più felice di quanto non fossi prima. Seguì un altro periodo di tempo indefinito di spiegazioni, tentativi, successi e infine improperi e bestemmie da parte sua, che di certo non temeva il torpiloquio, quando necessario e anche quando non necessario. E in fondo la adoravo anche per questo. Passammo poi a Wii Sports con fortune alterne e da lì andammo avanti a lungo, per un bel pezzo della notte, mentre le luci a intermittenza balenavano fuori dalla finestra e i primi molesti botti di fine anno si facevano già sentire, a volte lontani a volte vicini. Il giorno dopo presi il treno per tornare a casa, con la mia Wii nuova stretta in valigia, fra magliette, maglioni e scarpe ma soprattutto con una nuova speranza nel cuore. Per il futuro, per il nostro futuro.
Fu l’ultimo Natale che passammo insieme. Di lì a sei mesi mi sarei trasferito a Ginevra, assestando un duro e letale colpo alla nostra relazione. Il ricordo di quella nottata è ancora lì con me, vivo e vivido come fosse ieri, uno fra i picchi assoluti di un rapporto che lentamente si disgregava senza che ce ne accorgessimo. Non eravamo mai stati vicini come in quella notte e forse non lo saremmo mai più stati. Il catalizzatore? Una Wii, un paio di giochi, l’atmosfera del Natale e tanta beata innocenza post-adolescenziale.
Lei fra qualche mese si sposerà. E io? Beh, io non sono mai più riuscito a finire New Super Mario Bros, Wii e di certo non perché fosse un gioco non eccezionale. Forse questa storia è molto più agrodolce di quanto vi sareste aspettati da uno speciale di Natale, ma questo è pur sempre Outcast ed è un attimo che ti distrai e BAMM, arrivano nostalgia e amarezza. Ah, e se vi manca la linea comica nel racconto, vi basta sapere che, in tutto questo, casa NON ERA effettivamente libera da tutti i coinquilini.
- Antonio Bellotta
Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.